Arezzo, 28 giugno 2025 – Una croce di smalto rosso. Come il sangue dei 244 martiri di Civitella, come il filo che ricuce la riconciliazione con la Germania. Il simbolo di un’alleanza che non cancella l’orrore ma ne fa memoria perché “non accada più” è tutto nella figura, esile, di una donna tenace e coraggiosa: Ida Balò.

L’appunta sul risvolto della giacca bianca, con cura, l’ambasciatore tedesco in Italia Lucas, in una sala gremita che attende il momento in silenzio. Ci sono tanti volti segnati dalle rughe degli anni, ci sono tanti capelli bianchi, e occhiali da vista calzati sul naso: sono i figli dei morti ammazzati dai nazisti. Sono qui anche loro e quella croce di smalto rosso è anche per loro. A Civitella Lucas porta il massimo riconoscimento del suo Paese alla superstite dell’eccidio: il Cavalierato. La Germania è a i suoi piedi, e attraverso lei, si inchina davanti a tutte le vittime. Nella piazza della strage, il presidente Steinmeier nel 2014 (allora ministro degli Esteri) venne a chiedere perdono per le atrocità dei nazisti e ieri ha incaricato l’ambasciatore Lucas di un compito dal valore simbolico enorme.
Ida Balò il 29 giugno 1944 era “una bambina felice” fino a un attimo prima dell’inferno: i nazisti circondarono il paese, rastrellarono gli uomini e li massacrarono. Lei non rivide più suo padre. Nella piazza della memoria si incontrano la superstite e l’ambasciatore, le mani si intrecciano, poi un abbraccio mette il sigillo a una nuova alleanza, tessuta come una trama, di perdono e pacificazione. Ma pure impegno, instancabile, nella custodia della memoria, “nella cura dell’amore contro ogni forma di odio. Perchè l’odio porta conflitto e morte, scatena la violenza dell’uomo contro l’uomo. Invece siamo tutti chiamati a costruire la pace e a farlo cominciando dalle proprie case, in famiglia”.

Scandisce il concetto col piglio di una “bersagliera”, forse troppo esile per correre, ma altrettanto forte nel portare avanti il valore del ricordo, l’omaggio a tutti quei volti che ha visto a terra, insanguinati e con gli occhi sbarrati, i cadaveri sui quali è inciampata, fuggendo da Civitella in fiamme. Per anni, dopo quell’orrore, non ha detto una parola. “Alle medie le mie compagne raccontavano i fatti di Civitella, ma io no, restavo in silenzio. Un giorno la professoressa ci consegnò un tema su un episodio che ci ha colpito. Non riuscivo a macchiare il foglio mentre gli altri scrivevano di cose belle. La professoressa mi incitò a scrivere con un tono che mi suscitò una reazione interiore: cominciai a scrivere della strage e di tutto quello che avevo visto. La preside mi mandò a chiamare, aveva tra le mani il mio compito e le lacrime agli occhi. ’Bambina mia, ma tu sei di Civitella! Non ti preoccupare, nessuno ti farà del male, noi ti vogliamo tanto bene’, disse abbracciandomi”.
Da allora le parole, i racconti, le immagini, le voci, sono il suo taccuino quotidiano, il carburante che ha spinto la creazione della Sala della Memoria, il libro che raccoglie oltre settanta testimonianze delle vedove costrette a emigrare coi figli per sopravvivere, lasciando un paese di macerie e di morti. Ma qui la memoria è più forte della mitraglia. Da ottant’anni.