
Un enorme pino crollato su un palazzo nella zona di Firenze sud (Marco Mori/New Press Photo)
Firenze, 1 agosto 2025 – Un giovane di Montemurlo, colpito da un grosso ramo mentre pescava sulle sponde dell’Arno, morì dopo una lunga agonia. Quasi 400 alberi furono spazzati via dalla furia del vento e oltre mille subirono danni. Decine di tegole volarono via dai tetti delle case, diversi tetti collassarono, i gazebo dei bar volarono via impazziti. Mai Firenze, dopo l’alluvione del 1966, aveva vissuto un giorno terribile come quello.
Primo agosto 2015, dieci anni. Il giorno dell’uragano, o meglio del downburst. Successe tutto poco prima dell’ora di cena quando una massa di aria calda proveniente da sud, carica di umidità del mar Tirreno prese a correre sui cieli della Toscana e, davanti al primo ostacolo veramente alto – e cioè la dorsale del Monte Giovi – si incastrò e lungo il corso umido e bollente dell’Arno iniziò a scaricare pioggia e grandine come un enorme secchio che si rovescia all’improvviso. I danni maggiori si registrarono nei quartieri a est della città. A Gavinana e Bellariva soprattutto. Quella sera sparì mezzo parco dell’Albereta che solo adesso, faticosamente, sta ricominciando a ritrovare la sua antica skyline verde.

Il giorno dopo gli esperti lo definirono un downburst (l’effetto che fa un secchio d’acqua rovesciato verticalmente su un pavimento) i fiorentini – con le mani nei capelli e gli occhi lustri di lacrime – più prosaicamente una tromba d’aria ci quelle viste solo alla televisione. Di certo mai a Bellariva. Primo agosto del 2015, dieci anni fa spaccati. Alle sette della sera il cielo è terso. Poi succede qualcosa. E succede in un pugno di secondi appena. L’aria risucchia dall’Arno il bollore di un luglio rovente e un vento feroce inizia a sconquassare con una furia dannata la zona est della città, spazza via alberi come stuzzicadenti, fa volare in aria gazebi come aquiloni. Le tegole delle case sembrano proiettili di cotto. “Fu qualcosa di devastante” ricorda oggi Luca Longo, volontario storico del parco dell’Anconella che da trent’anni organizza eventi di comunità. Quel pomeriggio, come sempre era lì. Tra quei colossi verdi che in un batter d’occhio furono sbarbari dalla violenza del cielo.
Longo, cosa ricorda di quel giorno?
“Ricordo che un attimo prima del disastro era tutto tranquillissimo. Erano le 19, il sole era ancora alto in un cielo celestissimo”.
Incredibile.
“Già. Il parco era ancora pieno di famiglie. A un certo punto ricordo che alzai gli occhi e sentii una gocciolina. Mi parve davvero strano... Era tutto sereno”.
E poi cosa successe?
“Iniziò a piovere e molta gente ovviamente corse a casa. Ma non tutti, e quelli che non riuscirono a mettersi in fuga passarono momenti infernali. Io, assieme ad altri miei soci, cercammo di aiutarli”.
Cercaste un riparo?
“Ci radunammo tutti sotto un grande gazebo d’acciaio. Fu lì che il tornado prese forza ma noi non riuscivamo a capire cosa stesse succedendo. Pensammo a un terremoto”.
Un terremoto?
“Ha presente centinaia di alberi che iniziano a fracassarsi sul terreno. Inizia a tremare tutto”.
Avete avuto paura di morire?
“Sì. Non capivamo più niente, non si vedeva nulla. A un certo punto la forza del vento sbarbò addirittura il gazebo di ghisa che, mentre era in aria, fu schiacciato da un pino che stava crollando. Qualcosa di incredibile”.
Le persone come reagirono a quel punto?
“Erano sotto choc, confuse, c’era chi piangeva. Molti avevano delle ferite perché erano state colpite dai rami. Per fortuna ci salvammo ma da quel giorno cambiò tutto”.
In che senso?
“Molte persone, anche volontari, smisero di frequentare il parco. Forse per lo choc subito. Io no, io sono sempre rimasto. Specie quando ho visto la natura risvegliarsi, le piante rifiorire. Io resto, mi sono detto. Perché il mio impegno per l’Anconella va avanti dal 1995 e credo fortemente nel senso di comunità".