Vichi
Ho quello che cerchi” sussurrò Gino. Finirono la pasta e mangiarono dei pezzi di pollo con le patate, come tutti gli altri. Poi la lunga fila di detenuti si avviò nel corridoio, chiacchierando e ridendo. Qualcuno tornò in cella per farsi un caffè, altri andarono in cortile a fumare una sigaretta. Fiore e Gino uscirono in cortile e si misero in un angolo seduti sopra uno scalino di cemento, non troppo lontani dagli altri. Quando Fiore finì di arrotolare la sigaretta, di tabacco nella cartina ne era rimasto molto poco, ma accese lo stesso. Fece un bel tiro e soffiò il fumo contro le nuvole. “Dove abita?” disse, con un brivido di emozione. Gli sembrava di vedere la scena di un film, e la cosa gli piaceva. La sua faccia in primo piano... la faccia di un duro che parlava poco e non cambiava mai espressione. Lui non era lui, e non cercava Bobo, il secondino grasso. Lui aveva la faccia di Steve McQueen, e il suo compagno di cella stava per dirgli dove poteva trovare quel gran bastardo figlio di puttana che aveva violentato la sua donna. E appena fuori sarebbe andato dritto da quel figlio di puttana e lo avrebbe ammazzato. Due revolverate nei coglioni e una in testa. Poi avrebbe preso un taxi per farsi portare in un ristorante di lusso, e avrebbe ordinato spaghetti burro e formaggio.
“Quel Bobo che cerchi... sta a Rovezzano, in via Venosta numero centoventitré, palazzo due, scala C. Si chiama Beppe Scangiari, sposato, una figlia di dieci anni. La vacca di sua moglie fa le pulizie dai ricconi.” “Bene. Cosa devo dire al tuo amico?” “Quella roba è in una cascina abbandonata, a trecento metri dalla casa cantoniera di Gaiole, verso la collina. Digli di andare nella stalla e di scavare nell’angolo sotto la finestra, almeno mezzo metro. Digli che ti manda Passerotto, e fatti dare qualche foglio da cento per il favore. Lui si chiama Moreno Guasti, abita a Santa Maria a Monte in via Garibaldi al dodici. Fatti notare poco perché è in libertà vigilata.” “L’hai già detto.” “Meglio dirlo due volte.” “Bene.” “Mi togli una curiosità?” disse Gino. “Dipende...” “A che ti serve l’indirizzo di questo Bobo?” “Niente... una vecchia storia di spaghetti.” “Cazzo vuol dire?” disse Gino soffiando fumo dalla bocca. “Burro e parmigiano.” “C’è un doppio senso? Ti ha fatto la festa?” fece Gino, ridacchiando. “No, parlo di spaghetti veri... burro e parmigiano.” “E cioè?” “Non ho voglia di parlarne” disse Fiore, guardando il cielo azzurro sopra l’orlo del muro. C’era il sole, e proprio sopra il carcere era sospesa una grande nuvola, bianca come il paradiso. Era lo stesso cielo che potevano vedere tutti, anche quelli che non lo guardavano mai. Lo stesso cielo che stava sopra la testa di Beppe Scangiari, detto Bobo, sposato con una figlia di dieci anni, la cui vacca, cioè sua moglie, faceva le pulizie dai ricconi. Un gruppo di detenuti si mise a giocare a calcio nel cortile, e dopo un po’ si unirono un paio di secondini.
Qualcuno chiamò Gino con un fischio, ma lui fece un cenno per dire che non ne aveva voglia. Solo l’idea di correre dietro alla palla gli faceva venire una fitta alla schiena. La giornata andò avanti come tutte le altre, fino alla notte. E il giorno dopo uguale. Sempre le stesse cose. Mangiare, fumare, scherzare, qualche litigio, qualche cazzotto, pasta scotta, due tiri a palla, stracci colorati sul cemento, caffè, ancora sigarette, orologi fermi. Finalmente arrivò la mattina del quattro aprile. In cielo non c’era una nuvola. Dopo l’appello, due secondini vennero a prendere Giuseppe Fiore e lo portarono in una stanza con un grande bancone di legno giallastro. Gli resero ciò che era suo, un portafogli vuoto, un fazzoletto, un vecchio orologio di ottone, un cappotto. “Posso portare via questo? Non l’ho ancora finito” disse Fiore, sfilando da sotto la maglia un libro che si era infilato nella cintura. Il secondino glielo prese di mano e lesse a voce alta. “La confraternita del Chianti... che cazzo è? Un manuale per avvinazzati?” disse sghignazzando. “Posso prenderlo?” ripeté Fiore. “È roba dello Stato” fece il secondino, e buttò il libro sotto il bancone.
“Quando l’ho finito ve lo riporto” disse Fiore.
“Come no, magari insieme a una torta della nonna...”
“Non l’ho ancora finito.”
“E daglielo, cazzo ti frega” disse un altro secondino. Il collega scosse il capo.
7-continua