Vichi
Sai sempre quello che vuoi sapere, l’hai detto tu. “Dimmi almeno qualcosa in più, di questo stronzo che cerchi.” “Lo chiamavano Bobo, ma anche Cubo, è basso e grasso e ha la faccia da cane. Non so altro. Voglio solo il nome e l’indirizzo” disse Fiore. “E se non ci riesco?” “Ci riuscirai.” “Ne sei così sicuro?” “Sì.” “E perché?” disse Gino, curioso. Fiore mise la caffettiera sul fornello e si avvicinò al letto di Gino. Abbassò la voce. “Perché penso che quel tuo amico andrà a recuperare i soldi di qualche rapina nel posto che io gli dirò, e magari potrebbe mandartene un po’. Devi passare parecchi anni qua dentro, e con i soldi è molto meglio.” “Non ti facevo così sveglio” disse Gino con una smorfia, poi accese una sigaretta e soffiò il fumo in alto. Fiore andò ad affacciarsi alla porta. Due detenuti stavano camminando avanti e indietro nel corridoio, fumando una sigaretta. Chiacchieravano a voce bassa. Arrivavano in fondo e tornavano indietro, poi avanzavano fino a un punto preciso del corridoio e tornavano di nuovo indietro. Su e giù, su e giù, con un rumore regolare di scarpe. In carcere Fiore non aveva mai visto nessuno fumare una sigaretta appoggiato al muro. L’immobilità era più soffocante del cemento e delle sbarre. “Chi mi dice che non cercherai di fregarmi?” disse Gino. “In che modo?” disse Fiore, tornando dentro la cella. “Potresti andare dritto a prenderti i soldi.” “Ti devi fidare.” “Quei soldi sono miei. Se mi freghi ti faccio ammazzare.” “Non mi sembra un buon inizio...” disse Fiore. “Ricordati quello che ti ho detto.” “Trovami quell’indirizzo e andrò dal tuo amico a dirgli quello che vuoi.” “Ahia... cazzo...” disse Gino, mettendosi seduto sul letto. Si guardò le mani. Erano rosse e gonfie, le aveva usate per pararsi la testa. Bevvero il caffè in silenzio. Poi Fiore si mise a leggere e Gino si allungò di nuovo sul materasso. Verso le dieci cominciarono i soliti urli, e Fiore andò ad affacciarsi alla finestra. Quel giorno erano cominciati prima del solito, forse perché c’era il sole. Alla sua sinistra c’era la grande facciata interna di un’altra sezione maschile, una muraglia grigia con delle finestrelle lunghe e strette come feritoie. Da quei rettangoli neri sbucavano decine di braccia nude con degli stracci colorati in mano. Ma la massiccia colata di cemento non poteva essere messa in discussione da quei minuscoli spruzzi di colore. Di fronte a quello spettacolo, Fiore sentì finalmente una certa emozione all’idea che di lì a una settimana sarebbe uscito. Accompagnati da urla di richiamo, gli stracci venivano agitati in cerchio, prima da una parte e poi dall’altra, e ogni tanto anche un colpo isolato in senso verticale. Era un codice semplice ed efficace per parlare con le donne, rinchiuse dalla parte opposta dell’enorme cortile, sulla destra. Un giro di straccio voleva dire “a”, due giri voleva dire “b”, e così via. Se l’altro, o l’altra, capiva la parola prima della fine, agitava lo straccio in verticale, solo una volta, e si passava alla parola successiva. Ma gli ormoni avevano bisogno di farsi sentire anche con la voce, e quello spazio chiuso in mezzo al cemento risuonava di urla. Si corteggiavano, si mettevano insieme, si tradivano e litigavano. Tutto come nella vita libera, ma invece che per la strada o nei letti, da cemento a cemento. E giù in basso, una distesa di terra gialla e qualche ciuffo d’erba. Cinque giorni dopo, durante il pranzo, Gino andò a sedersi accanto a Fiore. Aveva ancora le mani viola per i lividi e zoppicava un po’, ma per il resto stava bene. Mangiarono in silenzio senza guardarsi, sapendo che avevano delle cose molto importanti da dirsi. Quel giorno c’erano le penne al pomodoro. Fiore inghiottiva cercando di non masticare troppo. La pasta era scotta e viscida, sapeva di vomito. Qualunque pomodoro si sarebbe offeso a sentirsi paragonare a quella fanghiglia rossastra. Fiore chiuse gli occhi e immaginò le penne al pomodoro come le faceva lui. Una salsa rossa che avvolgeva la pasta come se volesse scoparsela, le penne al dente che scricchiolavano quasi mentre le masticavi. Erano anni che non mangiava una pasta come si deve. Ci era quasi riuscito sette anni prima, con quegli spaghetti burro e parmigiano. Bobo non poteva passarla liscia.
6-continua