
Quell’oltraggio ai suoi spaghetti in cella non poteva dimenticarlo. Aspettò che fosse arrivato il suo tempo
Vichi
Ho fatto un po’ di pasta aveva detto Fiore. Bobo era entrato nella cella e aveva preso il piatto dalle mani del detenuto. Aveva annusato gli spaghetti a lungo, con un sorriso ispirato, e poi... ci aveva sputato dentro. Uno sputo preparato con cura, fatto solo di saliva, lasciato cadere su quella meraviglia di spaghetti fumanti. Spaghetti burro e parmigiano che pochi secondi prima Fiore sentiva già in bocca. Poi Bobo aveva infilato un dito fra gli spaghetti e li aveva mossi un po’, per spandere bene lo sputo. “Buon appetito” aveva detto ripassandogli il piatto di cartone, con un sorrisetto negli occhi. Fiore era rimasto immobile a guardare gli spaghetti che si raffreddavano. Bobo gli aveva spinto la scodella sotto il naso.
“Che succede? Non hai più fame?” aveva detto. Poi aveva preso dalla mensola quello che restava del burro e del parmigiano, lo aveva buttato per terra e aveva spiaccicato tutto sotto una scarpa. Per finire aveva spezzato gli spaghetti e li aveva sparpagliati sul pavimento, poi se n’era andato ridendo. Fiore aveva continuato a fissare il piatto, incapace di prendere una decisione. Il profumo gli entrava nel naso e lo faceva soffrire. Forse con un po’ di volontà avrebbe potuto non pensare a nulla, chiudere gli occhi e mangiarli. Ma poi come si sarebbe sentito? Cosa avrebbe significato per lui mangiare quegli spaghetti? E se non li avesse mangiati? Dopo quanti anni avrebbe avuto di nuovo un’occasione del genere?
Alla fine si era alzato e aveva rovesciato gli spaghetti nel secchio della spazzatura, insieme al piatto. Aveva continuato a fissarli per almeno cinque minuti. La stessa cosa che poco prima era l’immagine del piacere, adesso aveva un aspetto orribile. Valeva la pena di farci un ragionamento. Sentì dei passi e si voltò. Era una donna sui quarant’anni. Camminava a testa bassa verso il palazzo A, con due grandi sacchetti della spesa attaccati alle dita. Fiore la seguì con lo sguardo. Chissà se a casa sua quella donna aveva del burro bianco e del parmigiano stagionato. Non riusciva a togliersi dalla testa quegli spaghetti del ’99.
Aveva anche una gran fame, ma ormai voleva arrivare in fondo a quella storia. Passò altra gente. Camminavano tutti a capo basso. Nessuno faceva caso a quel tipo piccolo e magro, seduto in un angolo accanto a un cappotto piegato.
Alle nove e venticinque all’ingresso del piazzale asfaltato apparvero tre ombre. Avanzarono affiancate verso il blocco D, in silenzio. Fiore si alzò per guardare meglio. Le ombre diventarono un uomo grasso, una donna grassa e una bambina grassa. Fiore s’incamminò verso il centro del piazzale, poi si fermò. Era proprio lui, Bobo, con la moglie e la figlia. Era il momento di dire qualcosa, una frase tipo: “Ti stavo aspettando, Bobo”, e la sua vendetta sarebbe cominciata. Ma quando la famigliola gli passò davanti, Fiore vide che erano tutti e tre così brutti e tristi, così inutili, senza speranza... che rinunciò a parlare. Li seguì con lo sguardo finché li vide fermarsi davanti al portone del palazzo D, pensando che non avrebbe cambiato nemmeno un giorno della sua vita in cambio dell’intera esistenza di Bobo.
Forse la vendetta migliore era proprio quella: lasciare il secondino Bobo alla sua misera vita senza scampo, insieme alla sua povera famigliola sovrappeso. Quando la donna infilò le chiavi nella serratura, Fiore sfilò dalla tasca la calibro 9 che non aveva, puntò l’indice contro la schiena di Bobo e abbassò il pollice, sussurrando il rumore dello sparo. Poi soffiò sulla canna fumante e rimise la mano in tasca. Restò a guardare quei tre poveri mostri che entravano nel palazzo, con un senso di tristezza che non aveva mai provato. Bobo e famiglia sparirono dentro l’ascensore. Quando la luce delle scale si spense, Fiore uscì in strada e s’incamminò verso la fermata del bus. Voleva tornare in centro, per mangiare un piatto di pasta e comprare in quella libreria il romanzo che non aveva finito.
12-fine