SILVIA BINI
Cronaca

Il mercato opaco della moda. Made in Italy a 70 centesimi?: "Sfruttamento, riciclaggio, clan"

Il pestaggio ai lavoratori dell’Alba in sciopero ha riacceso l’attenzione sul distretto parallelo . L’esperto del settore: "Dietro ai prezzi irrisori c’è un circuito criminale. Ecco come stanno le cose".

Il corteo di sabato sostenuto dai Sudd Cobas dei lavoratori sfruttati

Il corteo di sabato sostenuto dai Sudd Cobas dei lavoratori sfruttati

Vestiti a 70 centesimi, giacche a 1,50 euro. Prezzi che rimbalzano su TikTok e WeChat, etichette che gridano Made in Italy. Ma dietro c’è altro. Lo sa bene Giuseppe Fabozzi, 61 anni, esperto di sistemi industriali per il tessile. Pratese, anni di lavoro in Cina, conosce i meccanismi che tengono in piedi la filiera dello sfruttamento. "I conti non tornano. Nemmeno con salari da fame. Dietro questi numeri ci sono flussi di denaro che nulla hanno a che fare con il normale mercato", spiega l’imprenditore.

Il punto di partenza è chiaro: capi finiti a pochi centesimi. Pile di maglie mostrate in diretta social da capannoni pratesi, smartphone puntati sul lavoro degli operai. Un sistema dove il prezzo stracciato è la prova, non l’indizio, di un’economia parallela. E il caso della stireria L’Alba, con l’aggressione agli operai in sciopero su cui la Procura ha aperto un fascicolo, ha riacceso i riflettori, mai del tutto spenti. Turni di dodici ore, intimidazioni, catena di subappalti che macina capi e lavoratori.

Fabozzi non si ferma allo sfruttamento. ""Qui parliamo di mafia transnazionale. Soldi sporchi che arrivano sotto forma di merce. Per chi riceve quei carichi il costo è zero. Deve solo trasformarli in contante e reinvestire. Un clan organizzato che lavora tra Italia e Cina". Riciclaggio, spiega, ma anche traffico di persone: "Per venire a lavorare in Italia si paga. Decine di migliaia di euro. Chi non ha i soldi lavora praticamente in condizioni di schiavitù con turni di 13 ore per scontare il debito. È un meccanismo criminale che lega le due sponde".

C’è poi il flusso inverso. Denaro che prende la via del ritorno, nascosto in triangolazioni finanziarie, utile a sostenere la filiera degli affari sporchi. "Non è solo economia nera, è questione di sicurezza nazionale. Ma non la si affronta con decisione".

Nel distretto pratese, i numeri confermano. Oltre 300 milioni di capi l’anno. Venerdì è il giorno delle maxi consegne: camion da Polonia, Romania, Francia. Intermediari che scelgono e pagano. Cinquemila aziende cinesi, per l’85% abbigliamento low cost, spesso ditte individuali pronte a chiudere e riaprire in un giorno per sfuggire ai controlli, il cosidetto fenomeno delle aziende apri e chiudi. Almeno 15mila lavoratori irregolari – cinesi, pakistani, bengalesi, indiani – tengono in moto questo sistema.

Intanto i grandi marchi continuano a esibire codici etici. Ma i video che corrono sui social dicono altro. "C’è un cortocircuito", avverte Fabozzi. "Si parla di Made in Italy ma la filiera è fuori controllo. Il prezzo impossibile è la spia: il business è quello che c’è dietro".

Il sindacato Sudd Cobas da anni ha intrapreso una battaglia partendo dal basso - e promettendo, come ha fatto durante la manifestazione di sabato in centro, di arrivare in alto a risalire la filiera della moda -, insiste: i committenti, i brand che riforniscono le boutique del mondo, non possono far finta di nulla, la catena di passaggi di lavorazione va verificata. "Il subappalto va controllato, o chi ordina deve assumere direttamente", ripetono i sindacalisti. Il presidente della Provincia e sindaco di Montemurlo, Simone Calamai, ha convocato i committenti di L’Alba per trovare una soluzione. Ma il problema va oltre una singola azienda.

Per Fabozzi la via d’uscita c’è: "Applicare le norme antimafia, colpire i capi clan, espellerli quando serve. Solo così si restituisce al distretto un’economia sana e si liberano lavoratori che avrebbero alternative legali. Gli strumenti ci sono, bisogna usarli ogni giorno. Le pratiche per espulsione, nel caso di sicurezza nazionale sono molto rapide ed efficaci". Nel frattempo, basta scorrere un feed per vedere cosa dovrebbe restare nascosto: maglie a 70 centesimi, giacche a 1,50 euro. "Un Made in Italy che, senza un cambio di rotta, rischia di restare solo un’etichetta". Si diceva anni fa e si dice oggi.

Silvia Bini