
Una lunga battaglia giudiziaria durata quasi mezzo secolo
Firenze, 14 settembre 2025 – Contrasse l’epatite C assumendo un emoderivato, malattia che, dopo anni, la portò fino alla morte: la corte d’appello civile di Firenze ha ribaltato il verdetto di primo grado e riconosciuto al marito e ai due figli il danno patito: un milione e quattrocentomila euro a carico del ministero della Sanità. E la causa va avanti per la valutazione del danno psichiatrico che avrebbe subito il marito della donna.
La vicenda trattata dai giudici della Quarta sezione civile del tribunale fiorentino (Dania Mori, presidente, e Maria Teresa Paternostro e Paola Caporali) risale addirittura alla fine degli anni ’70. In occasione del ricovero per parto presso la Casa di Cura Kraus di Firenze, nel 1978, le venne somministrato l’emoderivato Partobulin.
In seguito a questa assunzione, scoprì, negli anni a seguire, di aver contratto l’epatite C. Nel 2018, proprio per questa malattia, la donna morì. Ma per arrivare al Partobulin servirono degli anni. Lunga, infatti, è stata la battaglia giudiziaria, iniziata quando era ancora in vita.
Nel 1995 la donna presentò istanza amministrativa di indennizzo perché convinta di aver contratto il virus in seguito ad un’emotrasfusione effettuata nel 1991. La Commissione Medica Ospedaliera competente si pronunciò il 25 novembre 1998, “negando efficienza causale alla suddetta trasfusione, poiché era stato rintracciato il donatore e ne era stata riscontrata la negatività al virus”.
Persa questa partita, la donna presentò una nuova istanza in sede amministrativa nel 2006, adducendo quale causa della sua epatite C la somministrazione dell’emoderivato nel 1978, in occasione del ricovero per il parto, e negli anni successivi (1979 e 1980) per via di due interruzione volontarie di gravidanza avvenute all’ospedale di Santa Maria Nuova. Stavolta, la Commissione Medico Ospedaliera riconobbe “la sussistenza del legame eziologico”, ma respinse la domanda perché ritenuta tardiva.
Oggi, a distanza di quasi 50 anni, dopo una prima sentenza sfavorevole, arriva il riconoscimento del risarcimento ai familiari da parte del tribunale civile d’appello. “Non vi è dubbio – si legge nella sentenza – che sia il marito che i due figli subirono, a causa della malattia e della morte della un radicale sconvolgimento della propria vita”. In particolare il marito, che si trovò “nel corso della malattia, a dover assistere la propria moglie, in forza del presumibile rapporto di solidarietà che normalmente intercorre tra coniugi conviventi, in occasione dei numerosi controlli e trattamenti, sottraendo verosimilmente tempo ed energie ad altre attività, con conseguente rilevante riduzione della propria sfera gestionale nonché sensibile alterazione delle proprie abitudini e rapporti relazionali inter ed extra familiari, e, una volta sopraggiunta la morte della moglie, a dover fare i conti con il grande vuoto lasciato dalla scomparsa della propria compagna, con cui aveva condiviso oltre 40 anni di vita coniugale”.