LAURA NATOLI
Cronaca

Ricoverato per Covid, morì dopo 40 giorni a causa di un’infezione

L’uomo, peruviano di 49 anni, è deceduto all’ospedale di Prato. La perizia del giudice ha stabilito che il paziente non fu curato adeguatamente

OSPEDALE DI RAVENNA - REPARTO DI MEDICINA, STANZE COVID

OSPEDALE DI RAVENNA - REPARTO DI MEDICINA, STANZE COVID

Prato, 12 agosto 2025 – Un calvario andato avanti 40 giorni fino alla tragedia avvenuta il 22 dicembre del 2020, nel pieno della pandemia. A rimetterci fu un peruviano di 47 anni che, ricoverato all’ospedale di Prato per Covid il 5 novembre del 2020, morì poco prima di Natale ma non per le conseguenze del Covid, anche se “non fu curato adeguatamente”, ma per una serie di infezioni che il paziente ha contratto nel lungo periodo in cui è rimasto ricoverato in ospedale.

A stabilire la causa del decesso, dopo quasi cinque anni, è stata la consulenza tecnica disposta dal giudice civile di Firenze, Roberto Monteverde. A rivolgersi al tribunale contro l’Asl Toscana centro, a cui fa riferimento l’ospedale di Prato, è stata la famiglia dell’uomo, la moglie e i due figli che all’epoca erano minorenni, assistiti dall’avvocato Pietro Ferrari di Firenze. Il giudice ha disposto la consulenza per capire che cosa abbia causato la morte del peruviano e se fosse stato possibile evitarla. La causa non è ancora arrivata a sentenza ma la consulenza tecnica mette nero su bianco quelle che, a parere del perito nominato dal giudice (il medico legale Giuseppe Garcea) sono state le cause del decesso. La morte non sarebbe direttamente correlata all’infezione da Covid, motivo per cui l’uomo, che lavorava presso una cooperativa a Firenze, era stato ricoverato il 5 novembre 2020 a Prato. A ucciderlo sarebbe stata una infezione ospedaliera contratta a causa della contaminazione dei sondini utilizzati durante la degenza in rianimazione.

“La diagnosi corretta – scrive il perito – è di shock settico refrattario dovuto a sepsi da ’baumannii’”. Si tratta di una infezione che si contrae proprio in ospedale e per la quale l’Asl è stata citata a giudizio. E, sempre secondo il consulente del giudice, la terapia antibiotica è stata sì tempestiva ma “non adeguata” al trattamento del paziente in quel momento.

Il consulente ha voluto sottolineare come si trattasse di un periodo molto complicato per gli ospedali, costantemente sotto pressione e alle prese con la gestione della seconda ondata del Covid.

“Molti ospedali erano al collasso o al limite della capienza – scrive –; i pronto soccorso erano affollati, se non pieni, con lunghe attese anche per i pazienti gravi. Molte strutture avevano sospeso le attività ordinarie, compreso gli interventi chirurgici non urgenti. I carichi di lavoro erano estremi con turni prolungati (anche 12-14 ore). I medici e gli infermieri erano sotto stress, e a rischio: si registravano ancora molti casi di contagio tra il personale sanitario”.

La consulenza ha inoltre accertato che la terapia antibiotica applicata al momento del ricovero del peruviano era insufficiente, in quanto i valori di antibiotico riscontrati nel sangue del paziente erano di livello inferiore a quello necessario per una efficace terapia. Le condizioni dell’uomo erano molto gravi al momento del ricovero anche se si trattava di una persona tutto sommato “sana”, senza particolari malattie pregresse. Inoltre la perizia ha considerato “ingiustificabile” il comportamento dell’ospedale che non ha applicato “le terapie antivirali disponibili al momento”. La causa al tribunale civile di Firenze è in corso e i familiari dell’uomo attendono la sentenza.