FILIPPO BONI
Cronaca

Ucciso mentre miete il grano. La figlia vince la sua battaglia. Sarà risarcita 81 anni dopo

Il tribunale dà ragione di nuovo alla ferita delle vittime: rimborso di 391 mila euro. Agonizzò per mesi prima di morire, una lunga battaglia legale. Respinte le altre richieste

Una delle fucilazioni avvenute durante la Seconda Guerra Mondiale (Foto di repertorio)

Una delle fucilazioni avvenute durante la Seconda Guerra Mondiale (Foto di repertorio)

Arezzo, 25 agosto 2025 – Ci sono ferite che il tempo non richiude, cicatrici che restano aperte come squarci nell’anima di una famiglia e di un paese. Ma ottantun anni dopo la strage nazifascista di Palazzo del Pero, il grido di una bambina rimasta orfana del babbo nel silenzio del grano insanguinato dell’estate del 1944, ha trovato finalmente ascolto: il Tribunale di Firenze ha trasformato quel dolore antico in giustizia, restituendo alla memoria collettiva la voce di chi non ha mai potuto parlare.

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Sui luoghi delle stragi naziste. A Greve un sentiero della Memoria

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Il 24 giugno 1944, tra Palazzo del Pero e Molin Nuovo, nel comune di Arezzo, le truppe tedesche colpirono con cieca ferocia. Un rastrellamento seguito all’uccisione di un soldato della Wehrmacht portò all’esecuzione sommaria di dieci contadini che falciavano il grano. Alcuni furono fucilati davanti alle famiglie, altri caddero lungo le strade e nei campi. Uno di loro, colpito alla testa mentre mieteva, agonizzò per mesi prima di morire, lasciando dietro di sé una moglie e una figlia piccolissima. Quella bambina, oggi anziana, è l’attrice della causa. In quelle settimane del 1944, l’Aretino viveva giorni di ferro e fuoco.

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Il coraggio della memoria Il film sulle stragi

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L’avanzata alleata da sud aveva acceso la speranza della liberazione, ma anche la furia dei reparti tedeschi in ritirata, decisi a punire con rappresaglie feroci ogni sospetto di complicità con i partigiani. Tra giugno e luglio, interi paesi furono messi a ferro e fuoco: San Pancrazio, Civitella, Cornia, Castelnuovo dei Sabbioni, Meleto, nomi che ancora oggi bruciano nella memoria toscana. La logica era sempre la stessa: colpire i civili, seminare il terrore, spezzare il legame tra popolazione e Resistenza. A Palazzo del Pero, come in tanti altri angoli della campagna, bastò la morte di un soldato tedesco per scatenare la vendetta cieca contro uomini inermi, contadini che non avevano altra colpa che quella di trovarsi nel posto sbagliato, nel giorno sbagliato e che sono rimasti sempre senza giustizia.

Il giudice Massimo Maione Mannamo, con una sentenza depositata il 23 agosto, ha dichiarato la Repubblica Federale di Germania responsabile per quei crimini di guerra e contro l’umanità. Una responsabilità morale e storica che la Corte Costituzionale, con la celebre decisione (la numero 238 del 2014), aveva già reso giudicabile nei tribunali italiani. Ma non sarà Berlino a versare il risarcimento: a pagare sarà lo Stato italiano, tramite il Fondo ristori istituito nel 2022 per i crimini nazifascisti. Alla figlia superstite spettano 391.103 euro, calcolati secondo le tabelle del Tribunale di Milano, come ristoro del danno da perdita del rapporto parentale. Non un’eredità, non un indennizzo qualsiasi, ma il riconoscimento di un vuoto che ha segnato un’esistenza intera. Il giudice ha invece rigettato le domande relative alle sofferenze del padre e della madre, per mancanza di prova della successione ereditaria.

In aula, lo Stato italiano ha provato a difendersi con eccezioni tecniche, cavilli, prescrizioni. Ma la sostanza della storia è rimasta intatta: quelle uccisioni furono barbarie, e nessuna foglia di carta può cancellarle. La Germania resta condannata solo sul piano dichiarativo, l’Italia si assume l’onere economico, la figlia ottiene giustizia. Eppure, la sentenza va oltre i numeri. È un atto che rimette al centro la dignità delle vittime civili, troppo a lungo dimenticate. È un segnale forte: il Paese non chiude gli occhi davanti ai fantasmi della sua storia. Lo Stato, che allora non seppe proteggere i suoi cittadini, oggi si fa carico almeno della memoria, e la memoria diventa diritto, diventa giurisprudenza.

Ottantuno anni dopo, la giustizia non ha ridato un padre a quella bambina ormai anziana. Non ha cancellato la ferocia della rappresaglia, né l’odore acre della polvere da sparo tra i campi di Arezzo. Ma ha acceso una luce nel buio. Una luce che dice che nessuna vita spezzata è stata vana, che ogni nome dimenticato merita ancora di essere pronunciato, che la memoria dei martiri civili è un dovere collettivo. Una luce che nel grano insanguinato di quel giorno d’estate a Palazzo del Pero si era spenta. E quella luce, oggi, appartiene a tutti. Numerosi furono gli eccidi nella provincia.

Il dramma ebbe inizio a primavera 1944 e proseguì fino a settembre 1944. Dopo l’eccidio in Valtiberina del 27 marzo a Villa Santinelli con 9 partigiani fucilati, aprile iniziò con le stragi in Casentino, a Vallucciole (108 morti), a Partina e a Moscaio di Banzena (37). Poi Chiusi della Verna (10); il 20 toccò a Montemignaio (11). A giugno a Falzano, a Cortona (11 vittime); il 29 ancora in Casentino a Montemignaio (5). Lo stesso giorno, a Castel San Niccolò, a Cetica (13 civili). Valdichiana e Valdarno: il 29 giugno, la Hermann Goring colpì a morte Civitella, Cornia e San Pancrazio di Bucine massacrando 244 civili. In Valdarno, tra il 4 e l’11 luglio, gli stessi uomini di Civitella, operarono nel comune di Cavriglia con 192 vittime. Il 6 luglio, a Loro Ciuffenna (47 morti). Il 14 luglio San Polo (63). Una carneficina immane, che ancora oggi viene annoverata come una delle più brutali d’Italia.