
Stefano Grifoni, per anni direttore del pronto soccorso di Careggi, oggi alla guida del Governo clinico regionale
Firenze, 29 giugno 2025 – Più presa in carico, meno ospedalizzazioni inutili. L’obiettivo è creare una sinergia forte e vera fra ospedale e territorio, intercettando e rispondendo ai bisogni reali dei cittadini, soprattutto dei pazienti cronici e fragili, ascoltando la loro voce e quella delle associazioni. Un cambio di passo nella logica della presa in carico, che richiede un nuovo equilibrio tra ospedale e territorio e una medicina capace di uscire dai palazzi per entrare nei luoghi di vita. Uno dei nodi centrali è riuscire a portare gli specialisti ospedalieri dentro le case della comunità, trasformandole in strutture di alta complessità, non semplici poliambulatori. Non sarà un’impresa facile, ma qualcuno ci sta provando. Ne abbiamo parlato con Stefano Grifoni, per anni direttore del pronto soccorso di Careggi, oggi alla guida del Governo clinico regionale, l’organismo regionale che riunisce professionisti della sanità, medici, dirigenti e rappresentanti del mondo accademico per indirizzare le politiche sanitarie della Toscana su basi scientifiche, cliniche e soprattutto reali. Una cabina di regia tecnica che affianca le decisioni della politica con l’obiettivo di costruire un sistema più vicino ai bisogni dei cittadini. Medico internista, docente universitario, membro di diversi consigli d’amministrazione in ambito sanitario (ospedale pediatrico Meyer Irccs in primis), Grifoni è una figura che tiene insieme esperienza clinica, visione di sistema e sensibilità sociale.
Dottor Grifoni, da dove parte il lavoro del Governo clinico? Qual è la direzione?
«La proposta che mettiamo a disposizione della politica è ricostruire un sistema sanitario che parta dai bisogni della gente, non solo dalle strutture. Ci stiamo occupando dell’emergenza-urgenza e della presa in carico delle fragilità, non solo della cronicità in senso stretto. Perché oggi le fragilità sono tante: patologie neurodegenerative, decadimenti cognitivi, solitudine, povertà sanitaria. Stiamo anche cercando di ridare un ruolo pieno agli operatori sanitari, medici e infermieri, all’interno del sistema. E non trascuriamo nemmeno la medicina veterinaria: per molte persone sole, un animale domestico è l’unico legame affettivo rimasto. Quando si ammala, non sanno come fare. È una questione di dignità, non solo sanitaria».
La cronicità resta uno dei grandi nodi irrisolti. Quali strumenti avete in campo per affrontarla sul serio?
«La gestione delle cronicità deve articolarsi su più livelli. Per le riacutizzazioni serve l’ospedale, ma tutto il resto deve avvenire sul territorio. Con il presidente dell’Ordine dei Medici di Firenze, Pietro Dattolo, abbiamo presentato un progetto che punta proprio alla prevenzione delle riacutizzazioni. Un esempio? I pazienti con scompenso cardiaco seguiti sul territorio hanno drasticamente ridotto i ricoveri. Questo modello può essere esteso ad altre patologie croniche».
Le case della comunità possono diventare il cuore di questo nuovo modello di presa in carico?
«Sì, se le rendiamo strutture complesse, capaci di diagnosi e intervento. Non devono essere semplici aggregazioni di ambulatori, ma veri presidi dove si può fare medicina ad alto livello. Ecco perché il nodo vero è portare gli specialisti ospedalieri nelle case della comunità. Sono loro che possono garantire autonomia decisionale e competenze trasversali. Se durante un accertamento emerge la necessità di intervenire, la presa in carico deve essere immediata, senza rimpalli. Il paziente non può essere costretto a peregrinare da una struttura all’altra».
Ma gli specialisti ospedalieri ci andranno mai davvero nelle case della comunità?
«Se le condizioni sono giuste, sì. Se invece le case della comunità restano contenitori svuotati di significato, nessuno ci andrà. Il punto è che non ci può più essere una medicina del territorio e una medicina ospedaliera che marciano separatamente o con molte difficoltà di comunicazione. Il paziente è uno solo. Le competenze devono integrarsi. E se il sistema pubblico da solo non regge, possiamo pensare a un’integrazione con il terzo settore o il privato convenzionato. Ma dentro un progetto coerente, non come toppa».
Veniamo all’emergenza: i pronto soccorso restano sotto pressione. I Pir dovevano alleggerirli, ma per ora sono pochi e non funziona come si immaginava. Perché?
«L’idea è buona, ma l’implementazione no. I Punti di intervento rapido aperti a fianco del pronto soccorso non servono. Dovrebbero stare dentro le case della comunità, solo così si può intercettare l’urgenza minore e alleggerire il carico degli ospedali. Altrimenti, continueremo ad avere accessi impropri in pronto soccorso con numeri altissimi».
Ci sono pazienti che arrivano in ospedale solo perché non sanno a chi rivolgersi. Si può fare qualcosa prima?
«Sì, dobbiamo intercettarli prima. Parliamo di persone fragili, spesso sole, che non hanno riferimenti. Non sanno dove andare. Le case della comunità e gli ospedali di comunità potrebbero prendersi carico anche di loro, se fossero messi nelle condizioni di farlo. Ma bisogna attrezzarli bene, e farli conoscere. Serve un cambiamento culturale, oltre che strutturale».
Lei ha parlato anche della salute degli animali come tema sanitario. Perché?
«Perché in molti casi, per gli anziani, un cane o un gatto non è un accessorio: è l’unico affetto quotidiano. Quando si ammala, quelle persone si sentono perse. E le terapie veterinarie costano anche più di quelle umane. Perché non pensare a un sistema di tutela per le fasce più deboli? Anche questo è un modo per prendersi cura della fragilità».
C’è poi il nodo dell’odontoiatria: anche qui, molte prestazioni sono ormai inaccessibili.
«È un problema reale. Le persone anziane hanno bisogno di denti per mangiare, per nutrirsi bene. E oggi, anche nel pubblico, una protesi costa 500 euro. Ci stiamo occupando anche di questo. Perché se un anziano non riesce a masticare, si ammala. E non è solo un problema suo: è un problema del sistema».
Il Governo clinico ha scelto di coinvolgere direttamente le associazioni dei pazienti. Perché? «Perché se non ascolti chi vive ogni giorno la malattia, come fai a sapere quali sono i bisogni veri? Abbiamo coinvolto le associazioni dei malati di Parkinson, Alzheimer, decadimento cognitivo e molte altre. Non sarà facile dare risposte perfette. Ma se nemmeno ci proviamo, abbiamo già fallito in partenza».