
L’intervento dei carabienieri il giorno della tragedia
Firenze, 25 luglio 2022 - "Mi sento in colpa per quello che ho fatto. Ma volevo morire anche io insieme a lei". Sono le prime parole che ha detto agli operatori sanitari che l’hanno accolto all’Hospice di via delle Oblate, la struttura di cura e di trattamenti palliativi per malati terminali. Parole che ripete continuamente, senza trovare pace. Quando si dice la disperazione. Ma anche la solitudine, la malattia e l’amore.
Sì, ha ucciso la moglie. Con un gesto particolarmente cruento, sgozzandola. E’ successo due settimane fa. Aveva provato, con tutta l’intenzione di riuscirci, a ripetere quella macabra impresa su sé stesso. Ma non ce l’ha fatta. Eppure ad ascoltare quello che in termini giuridici si chiama assassino, la prima parola che viene in mente è amore. Nonostante tutto. Un gesto d’amore e di morte. Con il coltello: l’unica arma a disposizione. L’ottantasettenne che, dopo aver dedicato gli ultimi faticosissimi anni di questa sua vita alla cura della moglie, ha scoperto che il suo tumore aveva ripreso a camminare. Che presto il malaccio lo avrebbe portato via senza sapere a chi affidare la compagna di tutto un lungo percorso fra inciampi e felicità sparpagliate. Quella donna amata ormai privata della memoria e di tanto altro da quel demone del morbo di Alzheimer. Se lei non riconosceva lui, lui sapeva benissimo chi era lei. Tanto bastava. Fino a quando lui ha deciso che non era più possibile andare avanti. Che doveva finire lì.
La coppia, insieme da settant’anni, ha avuto tre figli. Nessuno di loro sembra che non avesse la possibilità di seguire genitori con necessità tanto complesse.
Il loro babbo voleva morire e il tumore lo sta consumando. Ma all’hospice l’uomo sta rinascendo. E uscirà presto dalla struttura diretta da Andrea Messeri. Dove andrà? Probabilmente in una casa di riposo. Perché la nostra società sembra imbarbarita, non concede gli strumenti – oltre al tempo e ai sostegni – per seguire i più fragili prima dell’addio definitivo. Non aiuta abbastanza i familiari.
E’ così che chi segue un malato viene inghiottito nella voragine della solitudine, capita che si lasci andare alla disperazione. Come era successo all’ottantasettenne.
All’hospice è arrivato mercoledì scorso. Ha trovato finalmente la compagnia che non aveva da tanto tempo. Qualcuno con cui parlare e sfogarsi. Qualcuno che lo ascolti. "Sapevo che sarei morto, volevo andarmene con lei", dice. E’ una persona semplice, che ha subito conquistato gli operatori sanitari, l’ottantasettenne.
"Questo è un ricovero più sociale che assistenziale, l’uomo è malato ma non è un paziente terminale – dice il dottor Messeri – Questa tragedia è maturata in un contesto di solitudine: lui parla volentieri, si vede proprio che ha voglia di parlare".
Ora si rende conto di ciò che ha fatto. E’ lucido. Si sente in colpa. Si sente sotto il giudizio dei figli: un assassino che ha ucciso la moglie. Ma questo femminicidio, sebbene i femminicidi non debbano trovare mai né approvazione né giustificazione, è maturato in un contesto diverso. E pure è vero che sono sempre più frequenti gli omicidi-suicidi degli anziani soli, malati. Abbandonati.
"Questo incontro dimostra come gli hospice non siano solamente luoghi di morte, ma anche per cominciare a rinascere quando tutto sembrava finito nell’abbandono e nella solitudine".