
Marco Buti, professore all’Istituto Universitario Europeo
La Toscana rischia una lenta deindustrializzazione che, se non affrontata con una strategia di lungo periodo, potrebbe compromettere la competitività e la tenuta sociale del territorio. È l’allarme lanciato dall’economista Marco Buti, professore all’Istituto Universitario Europeo e già direttore generale degli Affari economici della Commissione europea, che, insieme al professor Alessandro Petretto e a Stefano Casini Benvenuti, per tanti anni direttore di Irpet, ha redatto un Manifesto sulla reindustrializzazione della Toscana. Il documento sarà presentato lunedì 8 alle 11 a Palazzo Buontalenti in via Cavour, sede dell’Istituto Universitario Europeo, davanti a esponenti del mondo politico, accademico ed economico regionale.
Professore, perché un manifesto sulla reindustrializzazione della Toscana?
"Perché vediamo in atto un processo di deindustrializzazione che rischia di segnare il futuro della regione. Abbiamo scritto questo documento per offrire spunti di dibattito pubblico e orientare la discussione anche in campagna elettorale verso temi concreti e fondamentali per lo sviluppo".
In che contesto europeo si colloca questa riflessione?
"Veniamo da una crisi del modello di crescita dell’Europa, basato sulle esportazioni e oggi messo in discussione dalla guerra commerciale con gli Stati Uniti. L’Italia è molto esposta e la Toscana risente di tutto questo in modo amplificato: se l’Italia è l’Europa al quadrato, la Toscana è l’Italia al cubo".
Pesano, dunque, i dazi Usa?
"Molto. Il 16% delle esportazioni toscane è verso gli Stati Uniti, più di qualsiasi altra grande regione italiana. Farmaceutica, moda, pelletteria, agroalimentare, e meccanica sono settori esposti. Ai problemi strutturali si aggiunge questo shock esterno, che non sparirà presto".
Qual è la diagnosi principale contenuta nel manifesto?
"Che la regione vive una crisi strutturale del proprio modello economico. Dal 2008 al 2023, i settori ad alti salari sono calati del 18%, mentre quelli a bassi salari sono cresciuti in egual misura. È un’occupazione povera, non sostenibile nel lungo periodo. Le cause di questa deindustrializzazione sono molteplici: la prevalenza di piccole imprese inserite in filiere controllate da grandi gruppi esterni, la mancanza di ricambio generazionale, la fuga dei giovani qualificati e un’innovazione che stenta".
La cura qual è?
"Non diamo ricette pronte all’uso, ma delle piste di riflessione. Per esempio, un’indicazione importante riguarda il fisco regionale. Nel prossimo futuro avremo una maggiore flessibilità della fiscalità regionale: questo può essere un modo per passare dai bonus a pioggia a tributi regionali convogliati verso lo sviluppo dell’industria. Quindi più mirati. Bisogna rimettere l’industria al centro della strategia di politica economica regionale. Nel Manifesto indichiamo, in sintesi, quattro linee guida. Energia, con costi contenuti e certezza dei rifornimenti. Filiere locali, più corte e resilienti. Formazione, per valorizzare scuole tecniche, Its, università e anche l’Istituto Universitario Europeo. Innovazione e finanza, per convogliare il risparmio verso attività innovative".
E se l’economia toscana non dovesse cambiare rotta?
"Il rischio è una lenta agonia, come disse il rapporto Draghi un anno fa. Senza una strategia condivisa di medio-lungo termine, la regione rischia di vedere compromessa anche la tenuta sociale. Ma la deindustrializzazione si può invertire attraverso un nuovo partenariato fra attori sociali, economici e le autorità pubbliche. Se la Toscana abbraccia la sfida dell’innovazione può tracciare la via per l’Italia e giocare un ruolo d’avanguardia in Europa".