STEFANO BROGIONI
Cronaca

I nuovi accertamenti genetici. Natalino non è figlio di Mele. Svolta dna che riscrive la storia

Il padre naturale è Giovanni Vinci, il più grande dei fratelli indagati nella “pista sarda“. Il bambino era stato risparmiato nell’omicidio di Signa e accompagnato fino ad una casa.

Un rompicapo dentro al rompicapo, un labirinto da cui nessuno - inquirenti, avvocati, studiosi o appassionati - è mai riuscito ad uscire, finora. Il piccolo Natalino può aver percorso da solo la strada al buio dal cimitero di Castelletti dove sua madre Barbara Locci era stata uccisa mentre amoreggiava con l’amante Antonio Lo Bianco, fino alla casa di Sant’Angelo a Lecore dove trovò riparo e partì l’allarme sul delitto poco prima consumato? E l’assassino graziò Natalino soltanto perché bambino o perché era a lui legato?

Forse, grazie alla clamorosa e inconfutabile verità genetica scoperta dalle pm Ornella Galeotti e Beatrice Giunti, si troveranno nuove risposte: il padre biologico di Natalino non era Stefano Mele, condannato per quel delitto, ma Giovanni Vinci, il più grande dei fratelli sardi nonché primo amante della Locci. Un risultato che potrebbe dare quelle spiegazioni, almeno dal punto di vista storico, che sinora non si sono trovate. Non tutto è scontato però: il lavoro delle pm fa i conti con alcuni ostacoli. Taluni insormontabili, come la morte di Giovanni Vinci, avvenuta ormai diversi anni fa senza che fosse mai stato neanche lambito dall’inchiesta infinita.

Tuttavia la logica, e anche alcuni elementi andati consolidandosi nella lunga narrazione tramandata dell’agosto del 1968 ad oggi (come le scarpe del bimbo rimaste nell’auto, la distanza percorsa al buio), fanno dire che il bambino, che avrebbe compiuto sette anni il Natale successivo, venne accompagnato e magari anche “istruito” su quello che avrebbe dovuto dire dopo aver suonato il campanello della casa del muratore De Felice.

Lui, Natalino, che in quella notte perse non solo la madre, ma di fatto anche il padre Stefano Mele, arrestato e poi condannato, non è mai stato d’aiuto agli inquirenti. Il risveglio improvviso con gli spari della calibro 22, il cammino assonnato nei viottoli della campagna signese in direzione di un lumicino; esperienza traumatica addolcita canticchiando - così è stato tramandato - il tormentone di quell’estate, la Tramontana del francese Antoine. Un dettaglio che fa da colonna sonora anche alla serie che uscirà ad ottobre su Netflix. Dove la figura di Natalino è stata ritenuta centrale anche dal regista Stefano Sollima, che al bimbo sopravvissuto al mostro ha dedicato il suo racconto. E non potrebbe essere altrimenti, visto che quell’accompagnatore premuroso potrebbe essere l’assassino seriale che ammazzerà altre sette volte, facendo sedici giovani vittime in tutto, oppure un “super testimone” che potrebbe - o forse avrebbe potuto - diradare molta nebbia dalla storia più intricata della cronaca giudiziaria italiana. Per questo, oggi, la “vera” paternità di Natalino è una novità dalla portata devastante. Che obbliga anche a ripensare quella narrazione stratificata negli anni, cristallizzata nella cosiddetta “pista sarda” incentrata sui due fratelli minori di Giovanni, Francesco e Salvatore, ma naufragata con la sentenza di archiviazione del giudice istruttore Mario Rotella nel 1989.

L’altro enigma. Il 1968, con la condanna del solo Mele, inchiodato da un movente lampante negli anni in cui ancora vigeva il delitto d’onore ma in concreto il meno capace e il meno incline di quel clan ad ammazzare per gelosia e per lavare un’onta, è comunque un delitto risolto male, per non dire irrisolto. Ma diventa la chiave che apre o blinda l’intera vicenda alla luce di ciò che accade nell’estate del 1982. Cioè con il collegamento, tramite i bossoli recuperati, tra i quattro delitti attribuiti al mostro (Sagginale 1974; Mosciano e Calenzano 1981 e l’ultimo di Baccaiano) e quel precedente di 14 anni prima.

Non c’è assoluta certezza della genuinità della “scoperta” fatta dai carabinieri di Borgo Ognissanti verso la fine di luglio. La storia del maresciallo che aveva lavorato a Signa e che si ricordò improvvisamente di quel vecchio delitto non è supportata da alcuna annotazione di servizio. Al pari dell’alternativa versione di un anonimo che “impista” su una precedente aggressione in campagna verso una coppia, paiono più delle toppe, delle giustificazioni postume alle iniziative che il giudice istruttore Tricomi prese in quell’estate del 1982 per gettarsi sulla prima pista della caccia al serial killer. Una lacuna, quella della mancanza di riscontri alla scintilla iniziale che accende la pista sarda, che insospettirà anche Pierluigi Vigna: il capo della Procura, quando si rese conto che le indagini sui Vinci non hanno portato al mostro ma sono costate altre sei vittime (Giogoli 1983, Vicchio 1984 e Scopeti nel 1985) riconvocò la combriccola dei marescialli e solo allora, le versioni del ricordo postumo in caserma, prenderanno una forma ufficiale. Ma ufficiale non vuole dire automaticamente vera.