
Ugo Chiti: "Tutto è nato da un laboratorio che non volevo neppure tenere. L’eredità della compagnia? Non lo so, ma sento che non è ancora finita".
di Olga Mugnaini
FIRENZE
L’Arca Azzurra è una compagnia nata per caso, da una misteriosa congiunzione astrale, da giovani che non avevano mai fatto gli attori, ma diventati così bravi da far impallidire chi usciva dall’accademia. Ugo Chiti, drammaturgo, sceneggiatore e regista originario di Tavarnelle Val di Pesa, veniva dal teatro di ricerca e quasi controvoglia accettò di seguire un laboratorio in provincia. Da lì un successo dietro l’altro per quasi mezzo secolo, fra premi e il tutto esaurito ai botteghini. Ora la resa.
Maestro, come è nata l’avventura dell’Arca Azzurra?
"Era il 1982 e il Teatro Regionale Toscano mi mandò a fare un laboratorio a Tavarnelle, dove per altro io sono nato. E forse anche per questo non ci andavo volentieri. Invece fu una scoperta. Intanto iniziò con una grande, grandissima serietà di questi ragazzi, tutti giovanissimi. All’inizio erano diciotto e io non ho mai trovato un rigore e un sacrificio come in loro. Chi ha potuto ha lasciato anche il lavoro per tentare questa avventura. E fin da subito, da Tavarnelle e San Casciano, siamo stati sbalzati al successo, anche grazie a presenze fondamentali di sostegno quali Fulvio Fo e Giorgio Guazzotti".
Ma non è sempre stato facile.
"Il pubblico toscano e italiano è sempre stato meraviglioso nei nostri confronti. E anche la critica. Quello che è mancato è stato il riconoscimento delle istituzioni. È vero che qualche anno fa ho ricevuto il Fiorino d’Oro e che l’allora sindaco Dario Nardella ha scritto nella motivazione cose bellissime. Ma la stessa Pergola non è stata generosa con noi, a parte lo storico direttore Alfonso Spadoni. C’erano teatri vicini a Firenze che non ci volevano, preferivano produzioni più ’metropolitane’ che ’provinciali’. Poi quando l’Arca Azzurra ha cominciando a mettere in scena personaggi più conosciuti dalla tv è andata meglio. Abbiamo lavorato con grandissimi professionisti, da Isa Danieli, Giuliana Lojodice, Amanda Sandrelli, Ilaria Occhini".
A lei però i riconoscimenti non sono certo mancati.
"No, non posso certo lamentarmi. Ma molto più nel cinema che nel teatro. Basti dire che ho scritto una cinquantina di sceneggiature e vinto sei David di Donatello, che ho lavorato con Francesco Nuti, Alessandro Benvenuti, Giovanni Veronesi, Matteo Garrone, Roberto Andò. Ma forse meritavo più per il teatro che per il cinema. E questo soprattutto per la ricerca sulla lingua, sui costumi, per il lavoro sul territorio. Ripeto, dal pubblico ho avuto tanto: ha capito che si trovava di fronte un linguaggio popolare ma anche, perdoni il termine, colto. Siamo arrivati in un periodo di polemica, in cui si diceva che il teatro ripeteva sempre la solita cosa, i soliti attori, i soliti testi. C’era una sorta di apatia, di già visto e rivisto. L’Arca Azzurra era la dimostrazione che la provincia era capace di dare le cose più innovative e più forti".
Accanto al lavoro per il cinema lei ha continuato per decenni a scrivere per l’Arca Azzurra.
"Sì, in media ogni due anni. L’ultimo lavoro ’Falstaff a Windsor’ con Alessandro Benvenuti. Una relazione di 43 anni non si dimentica. Era diventata una delle compagnie italiane più longeve, anche se era cambiata rispetto al segno iniziale".
In che modo?
"Nel tempo c’è stata una grossa evoluzione, anche perché gli attori crescevano. Si è passati da una progettualità di recita del popolo fantastico al racconto orale dal carattere quasi religioso come era il ’Vangelo dei buffi’".
Il grande successo è arrivato con ’Allegretto’.
"Doveva essere una trilogia: il primo progetto prendeva gli anni Trenta del Fascismo con ’Allegretto’; poi gli anni Cinquanta del dopoguerra con ’La Provincia di Jimmy’; e infine un testo che sfiorasse gli anni di piombo, che non è mai arrivato. Ma abbiamo fatto molte altre cose".
Cosa ne sarà dell’eredità dell’Arca Azzurra?
"Non lo so. Intanto è un fatto fortemente traumatico per tutti. Rispetto i cinque soci e voglio bene a ognuno di loro. Sapevo delle difficoltà nell’andare avanti, ma è stato comunque uno choc. Adesso non posso neanche pensarci, è come negare un lutto. Allo stesso tempo sento che non è finita. L’Arca Azzurra è sempre andata avanti, perché fatta da persone di grandissimo rigore, senza turbamenti attoriali. Una compagnia con un grande collante e riconoscibilità. E poi il ritmo che hanno in scena, l’intesa fra di loro è una cosa davvero rara. Spero che venga riconosciuto quello che hanno dato al teatro. E chissà..."