
Davide Pecorelli durante una videochiamata coi familiari dal carcere di Tirana
di Fabrizio Paladino
Dalle mura logorate del carcere albanese "Burg 313", noto per le sue condizioni estreme e spesso al centro di denunce da parte delle organizzazioni per i diritti umani, arriva una lettera accorata. A scriverla e inviarla agli organi di stampa è Davide Pecorelli, 49 anni, ex imprenditore e arbitro di calcio della sezione , oggi detenuto con l’accusa di truffa. Il suo messaggio è diretto al senatore Walter Verini, esponente del Partito democratico, al quale chiede un intervento concreto in vista dell’udienza d’appello, fissata per il 18 settembre 2025 presso la Corte d’Appello di Tirana.
"Nuk ka viktima, nuk ka mashtrim" – ovvero "Non c’è vittima, non c’è truffa" – è la frase che Pecorelli ha scelto come titolo della sua lettera aperta, indirizzata non solo al mondo politico italiano, ma anche all’opinione pubblica, in Italia e in Albania. Un grido di aiuto, ma anche una presa di posizione chiara su quanto, a suo dire, è accaduto.
Nella lunga missiva, l’ex imprenditore denuncia condizioni di vita disumane all’interno del carcere in cui è rinchiuso da diversi mesi: "Celle sovraffollate, igiene al limite della decenza, infestazioni di topi e insetti, bagni senza scarico e ambienti insalubri. Questo è un luogo nel quale la morale, i diritti umani e il rispetto della vita non hanno accoglienza".
Pecorelli racconta di aver perso 12 chili da maggio a oggi e di aver accusato un peggioramento fisico progressivo, culminato – a suo dire – in una diagnosi di epatite C, confermata a seguito di un prelievo effettuato il 26 agosto scorso. "Una diagnosi che, se non trattata, può provocare danni irreversibili al fegato", spiega. Per questo motivo, dice, ha provveduto a comprare personalmente il farmaco Maviret, fondamentale per il trattamento della patologia, con un esborso di oltre 20.000 euro, sostenendo di non poter attendere i tempi della burocrazia locale.
Il cuore dell’appello, tuttavia, riguarda il processo in corso. Pecorelli – condannato in primo grado a 3 anni e 9 mesi di reclusione – sostiene la propria innocenza e insiste sull’assenza di elementi costitutivi del reato. "Non c’è truffa perché non c’è vittima. I danni sono stati interamente risarciti. Il caso dovrebbe essere chiuso", afferma. Da qui lo slogan ripetuto con forza, all’inizio e alla fine della lettera, come una sorta di mantra: "Nuk ka viktima, nuk ka mashtrim".
Nel suo appello al senatore Verini – figura da tempo impegnata sul fronte dei diritti civili – Pecorelli non chiede un’assoluzione a priori, ma un’attenzione politica e istituzionale alla sua vicenda giudiziaria, e soprattutto al trattamento che sta ricevendo. Il suo caso, riferisce, è già noto al Ministro degli Esteri Antonio Tajani e all’Ambasciatore italiano in Albania, Marco Alberti, ai quali si è più volte rivolto.
Fonti vicine alla Farnesina confermano che le autorità diplomatiche italiane hanno avviato un’azione di monitoraggio, anche se – fino a pochi giorni fa – non risultava nota la diagnosi di epatite C, né il peggioramento delle sue condizioni di salute.
L’intera vicenda resta avvolta da interrogativi e da un forte carico emotivo. A parlare, nella lettera, è un uomo che – colpevole o innocente che sia – denuncia l’abbandono, il silenzio, la mancanza di tutele, e la condizione di chi si ritrova in un Paese straniero, privato dei più elementari diritti sanitari e civili.
Pecorelli conclude la sua lettera con tono pacato ma deciso, affidando alla politica italiana quella che lui stesso definisce "l’ultima speranza".
Il 18 settembre la Corte d’Appello di Tirana dovrà pronunciarsi. Quel giorno potrebbe rappresentare uno spartiacque decisivo per il suo futuro.