GLORIA PERUZZI
Cronaca

"È ora di finirla": il grido di un soldato. Caporetto, cronaca della ritirata

Ricciardo Vaghetti: "Come i Beci", la Guerra raccontata da chi veramente l’ha scavata a mani nude. Dimenticati da tutti: il ricordo dei prigionieri italiani. Dalle Alpi alla Germania, senza pane né pace. .

Caporetto, 24 ottobre 1917. A viverla in presa diretta è il granatiere Ricciardo Vaghetti

Caporetto, 24 ottobre 1917. A viverla in presa diretta è il granatiere Ricciardo Vaghetti

di Gloria Peruzzi

C’è una data che non smette di pesare sulla memoria nazionale. Una disfatta che diviene sinonimo di sconfitta disastrosa: Caporetto, 24 ottobre 1917. A viverla in presa diretta è il granatiere Ricciardo Vaghetti. Ha vent’anni è toscano, di Cascina in provincia di Pisa, e annota sul suo diario-memoria "Lo credevo di far resistenza (1917-1918)":, ogni dettaglio di quelle ore concitate, tra la disfatta militare e la lenta presa di coscienza che nulla sarebbe stato più come prima. Alla vigilia, scrive, la notizia arrivò improvvisa: "Di fronte a grandi masse tedesche abbiamo sgombrato l’altopiano della Bainsizza". Ricciardo capì subito che quella sarebbe stata l’ultima notte sotto un tetto. L’indomani, lungo le strade del Friuli, assistette a "una interminabile fiumana di uomini, loro che si ritiravano e noi che andavamo avanti (…) era difficile aprirsi un varco". In quel caos, la sua compagnia ricevette l’ordine assurdo di avanzare, controcorrente, per coprire la distruzione dei ponti sull’Isonzo. Una manovra disperata, destinata a guadagnare solo poche ore. Le raffiche di mitragliatrice non tardarono a spezzare quell’illusione: "Lo credevo di far resistenza là (…) ma riprendemmo ancora la via dell’interno, abbandonando potenti trincee di cemento che tanto lavoro erano costati e che ora non servivano a nulla".

È il momento in cui la grande Storia diventa cronaca personale. Ricciardo descrive la marcia affannosa, il cibo che scarseggia, i compagni colpiti lungo i filari di vite. Si getta a terra, scava con la baionetta un riparo minimo: "... era come fanno i beci, che mangiano la terra e vanno avanti, mentre io la gettavo fuori (…) e così, ammesso che non lanciassero bombe col fucile potevo dirmi al sicuro". Il linguaggio è semplice, ma la forza dell’immagine restituisce tutta la disperazione di chi tenta solo di sopravvivere. Alla fine, l’inevitabile cattura. Per lui, come per centinaia di migliaia di soldati italiani, inizia l’esodo dei prigionieri. Passa da città spettrali, vede Udine occupata, poi le marce forzate attraverso le Alpi, fino ai vagoni merci che lo trascinano in Austria e in Germania.

Qui lo attendono i campi di prigionia, la fame, il freddo, la subordinazione totale: "... compio un mese che ho cambiato padrone, dico padrone perché più di una umile bestia nella stalla bisogna ubbidire non posso dire quali di questi padroni sia meglio, perché mi sembra che quando uno comanda italiano o tedesco c’è il buono e la bestia ovunque" scrive, restituendo con un colpo secco il senso della disumanizzazione. Eppure, in mezzo a quell’orrore, Ricciardo non smette di osservare. Registra le piccole strategie per resistere, come il commercio clandestino di patate cotte nella notte: un gesto minimo che diventa forma di sopravvivenza. Ma è nelle pagine del Natale 1917 che la sua voce raggiunge il culmine di un’amara lucidità: "Voglio sperare che anche gli uomini dirigenti questa immane catastrofe si convincano che è ora di finirla, di lasciarci una buona volta alle nostre famiglie a guadagnarci il pane che dobbiamo mangiare". Ricciardo sopravvive al campo di concentramento, muore nel 1978 a 81 anni, le sue parole suonano oggi come un testamento morale. Nei suoi appunti non cerca eroi né colpevoli: descrive la guerra per quello che è stata. E, un secolo dopo, leggendo queste pagine, la sensazione è di trovarsi ancora lì: tra la folla in fuga, nel fango delle trincee abbandonate, con il cuore che batte al ritmo delle mitragliatrici.