
Giulio Picchi al Cibreo: un locale storico di Firenze, che ha accolto teste coronate e vip (New Press Photo)
Firenze, 8 giugno 2025 – La cucina come gesto culturale, la filiera come racconto. Giulio Picchi, alla guida del Cibreo, parteciperà ad Agrofutura 2025. In questa anticipazione, riflette sul legame tra ristorazione e agricoltura, tra tecnologia e tradizione, tra tavola e territorio.
Il rapporto tra agricoltura e cucina? “I ristoratori devono stare in prima linea contro il conformismo dilagante. Siamo noi i primi a dover portare in tavola qualcosa che non abbia solo un buon sapore, ma che sia una bandiera. Un gesto di tutela e di difesa del territorio”.
Che cosa vuol dire, concretamente? “Non ti servo solo un pomodoro. Ti prendo per mano e ti porto nel campo, a vedere da dove arriva. Quando compri quel pomodoro di Amdrea Battiata, non stai comprando solo un alimento: stai scegliendo uno stile di vita, un senso di appartenenza. La cosa più bella è rendersi conto che i soldi che spendi finiscono in un luogo preciso, e servono a sostenere quella terra, quella cultura. È un atto di consapevolezza”.
È un po’ come per il vino, no? “Esatto. Quando compri un vino vuoi sapere il vitigno, la zona, chi l’ha fatto. Lo stesso dovrebbe valere per ogni prodotto. A parità di filiera, il valore si racconta così”.
Come si trasmette questo valore, allora? “Con il rispetto assoluto per l’alimento. Sta finendo l’epoca della trasformazione ossessiva, quella degli chef che sembrano chimici. Basta con la manipolazione fine a sé stessa, quella che serve solo a stupire. Quando elabori troppo, spesso nascondi, invece che esaltare”.
E il ruolo del ristoratore in tutto questo? “È centrale. L’oste è colui che racconta. Deve far percepire cosa c’è dietro a un prodotto. Il cliente va messo nelle condizioni di capire. È una forma di educazione gentile, non didascalica. Si trasmette cultura anche attraverso un piatto semplice, se sai farlo parlare”.
Il Cibreo ha un’identità forte, legata a Firenze, ma non è “fermo” nel tempo. Come si fa a innovare senza perdere la tradizione? “Bisogna uscire dall’idea che la tradizione sia un quadro appeso. È un fenomeno vivo. Anche oggi si sta facendo tradizione, se c’è una regola di fondo: il rispetto. Se ho una base culturale solida, posso permettermi anche di modificare”.
Il rischio, di cercare troppo lo stupore esiste? “Sì, è un rischio. Oggi si esaspera la ricerca dello stupore, ma è difficilissimo inventare qualcosa che duri a lungo, che diventi davvero tradizione. Dei grandi piatti della ristorazione stellata, su cento forse dieci resteranno nella storia. Perciò bisogna avere rispetto per quello che è stato già inventato. C’è una responsabilità verso chi è venuto prima”.
Tecnologia e cucina: si può parlare di alleanza? “Assolutamente. La tecnologia è parte della vita, e la vita è fatta di cambiamenti. È un alleato concreto: nella gestione della cucina, nella riduzione degli sprechi, nella protezione degli alimenti, nell’informazione”.
Può fare davvero la differenza nella sostenibilità? “Certo. Se hai un gestionale per gli acquisti, butti via meno roba. È semplice. Ma vale anche nella trasformazione. Prendi la fermentazione: una delle tecniche più antiche, oggi tornata in voga. Solo che adesso si fa con celle specifiche, ceppi selezionati, strumenti di precisione”.
E anche qui, il rischio è l’eccesso? “Sì. Se diventa una moda fine a sé stessa, perde senso. Quando la cucina è vanitosa o autocentrata, smette di essere ciò che dovrebbe: un gesto sociale. La tavola è stare insieme, condividere”.
La convivialità come valore da difendere, insomma. “Se avessi il cibo più buono del mondo, ma dovessi mangiarlo da solo, chiuso in una stanza, per tutta la vita… che benessere sarebbe? La nostra convivialità è sacra, più di qualsiasi ricetta. La tavola è un luogo sacro. Dalla nonna al bambino: lì si trasmette qualcosa che va oltre il piatto”.
Come immagini il futuro della cucina, tra dieci anni? “Sono ottimista. È vero che oggi siamo influenzati da modelli diversi – anche a causa di fenomeni come il delivery– ma dall’altra parte vedo ragazzi, coetanei, sempre più attenti all’alimentazione. C’è un ritorno all’ascolto di sé”.
Quindi c’è speranza? “Assolutamente. Chi entra in questo mestiere oggi, con il cuore, lo fa con una consapevolezza diversa. Non si può che andare a migliorare”.