
Il 16 aprile 2024 il dottor Giuseppe Oliveri lascia la direzione della Neurochirurgia
Siena, 30 maggio 2025 – “Ho deciso di fare il neurochirurgo a 4 anni. Non per una precoce espressione genomica. Molto più semplicemente il mio padrino era un neurochirurgo e mi raccontava lunghe favole che riguardavano due soli argomenti: Sandokan e la neurochirurgia. Avrei dunque fatto il pirata o il chirurgo. Col passare degli anni la prima ipotesi mi sembrò più impraticabile e optai per la seconda”: la conversazione col il dottor Giuseppe Oliveri prende subito una piega decisa.
Sono di fronte ad un professionista sui generis, quel “bel matto che subito piacque” a Iolanda Semplici che nel 2003 lo volle all’ospedale Le Scotte. Giuseppe Oliveri ha dedicato la sua vita alla neurochirurgia, al cervello.
Durante la sua carriera – tra Milano, Torino, Novara, Cuneo e Siena dove nel 2024 è andato in pensione – ha effettuato oltre 20.000 interventi. Avulso dai social, dalle tribune e dalle chiacchiere, è l’opposto dello stereotipo del ’chirurgo di fama’ descritto dai mass media.
In ospedale infermieri e specializzandi avevano istituito il ’semaforo’: il colore verde, arancione e rosso di inizio giornata indicava se era il caso di iniziare la conversazione o evitarla. L’unica interazione umana ’dovuta’ per Oliveri era quella con pazienti e famiglie.
Dopo una vita dedicata alla neurochirurgia, in sala operatoria a tutte le ore e dietro ad
un telescopio, ecco il libro ’Le mani e la mente’. “Le mani devono seguire la mente e sono le mani che operano sulla mente dei pazienti. In neurochirurgia intervieni su pazienti che non hanno paura di vivere ma di diventare un’altra persona, di cambiare”.
Ha sempre lavorato nella sanità pubblica. Per scelta?
“Mi sono laureato negli anni ’80: eravamo contro il ’sistema’ e orgogliosi di due grandi conquiste: la sanità e la scuola pubblica. La sanità vera per me è quella pubblica: difficile pensare che ci possa essere un guadagno privato nella chirurgia. La neurochirurgia poi ha bisogno di una grande struttura, un ospedale, personale dedicato e strumentazione. E la prossima sfida è ancora la sopravvivenza della sanità pubblica: non è giusto che l’aspettativa di vita sia diversa fra Nord e Sud Italia e che chi ha maggiori possibilità economiche possa avere risultati clinici migliori. Oggi la sanità pubblica è mortificata, con il giovane profedssionista non motivato, non orgoglioso ed entusiasta di partecipare al servizio pubblico”.
Perché ha scelto la neurochirurgia, disciplina più delicata e rischiosa di altre?
“Un’area con tante complicazioni, dall’apprendimento ai risultati clinici. Nella chirurgia c’è sempre un margine di inpredibilità, tanto più nell’intervenire sul cervello. Oggi la medicina è cambiat e anche la neurochirurgia: il metodo è lo stesso, sono cambiati gli strumenti, la tecnologia aiuta la precisione delle mani”.
Delicato immagino sia anche il rapporto con i pazienti?
“Il rischio cui vanno incontro e le prospettive di vita devono essere chiare. Bisogna imparare a parlare con il paziente, partendo dalla valutazione comparativa tra i rischi che si corrono con l’operazione e quelli che corri non facendolo”.
Ci sono stati casi che l’hanno segnata?
“Tutti. Non sei più coinvolto di fronte ad un nome noto che ad una altro. Nel momento del gesto operatorio devi essere freddo, staccarti emotivamente; in quel momento il nome non conta. Ho operato molti ragazzi e con un giovane certo sei più coinvolto emotivamente”.
Nel 2003 è arrivato a Siena.
“A Torino c’era una situazine fra pubblico e privato che non andava bene. Mi contattò l’allora direttore generale Iolanda Semplici. Alle Scotte c’era una buona unità neurochirurgica che opeava la colonna vertebrale, ma non la testa. Formai un gruppo di lavoro, infermieri e attrezzisti della neurochirurgia. Mi hanno sempre rimproverato di parlare dei ’miei infermieri’, dicendomi che ’gli infermieri sono dell’ospedale’. Invece erano i miei, della neurochirurgia. Quando sono arrivato, la rianimazione aveva 12 posti letto, il pronto soccorso era quello di un ospedale di periferia, la sala operatoria condivisa con altre unità. Ho posto come condizione di accettare tutti i pazienti. In pochi anni siamo arrivati ad avere due sale operatorie dedicate, una neurianimazione, 18 infermieri di sala, 36 letti di degenza e 2mila interventi l’anno”.
Paola Tomassoni