
La comunità musulmana si è riunita ieri mattina nel complesso dell’ex convento . Nerbini: "È il magistero della Chiesa". Ceccardi: "Nostre tradizioni offese".
Ottocento musulmani ieri hanno partecipato alla preghiera comunitaria, organizzata dal Centro islamico bengalese per la preghiera del sacrificio nel giardino di San Domenico. È la seconda volta che la Diocesi di Prato concede l’ex convento: accadde lo scorso 30 marzo, in occasione della fine del Ramadan. "Siamo venuti a Prato per lavorare, viviamo in questa città da tempo e abbiamo chiesto uno spazio per poterci riunire in preghiera – dice Omar Faruk a nome del Centro islamico bengalese – ringraziamo la Chiesa pratese, il Comune e la Questura per averci dato questa possibilità".
"La scelta della Diocesi di Prato si pone in piena e perfetta continuità con il magistero della Chiesa Cattolica", spiega il vescovo Giovanni Nerbini. "San Giovanni Paolo II – prosegue – ha indicato tre esigenze del dialogo interreligioso: la reciproca conoscenza, la scoperta e valorizzazione di ciò che è buono e vero fuori della Chiesa, la collaborazione. La scoperta e valorizzazione riguarda non soltanto i singoli non cristiani, ma anche gli aspetti delle stesse religioni. Nella Redemptor Hominis si parla dei ’tesori della religiosità umana’ e del ’magnifico patrimonio dello spirito umano, che si è manifestato in tutte le religioni’. È patrimonio comune di questi ultimi trenta anni la certezza che tutte le religioni sono chiamate a superare i fondamentalismi, ad emarginare ogni violenza ed offesa e a lavorare per costruire rapporti di amicizia e di pace".
Parole di apertura che non convincono Susanna Ceccardi, eurodeputata della Lega. "Il complesso di San Domenico ha ospitato nuovamente una ricorrenza religiosa musulmana: la festa del sacrificio. Rimaniamo basiti di fronte a questo ennesimo cedimento culturale. Parlare di integrazione quando si concede l’uso di spazi ecclesiastici per cerimonie di altre fedi non è rispettoso della nostra storia e delle nostre radici. Siamo di fronte a un’integrazione rovesciata, dove non sono gli ospiti ad adattarsi, ma è la nostra identità a dover fare passi indietro. Utilizzare un’area che fa parte del complesso della Chiesa cattolica per celebrare riti islamici è una scelta sconcertante, soprattutto in un momento storico in cui l’islamizzazione dell’Europa non è più un rischio ipotetico. Non significa discriminare, ma preservare ciò che siamo: una civiltà che ha nella cultura cristiana, nella storia europea i fondamenti".