MARILENA CHITI
Cronaca

Le testimonianze dei figli. Il doppio dramma dei soldati italiani

Roberto Saccenti racconta la vicenda del padre che faceva parte dell’esercito. Fu catturato dai nazisti dopo il ’43 e quando rientrò "era visto con diffidenza" .

Roberto Saccenti, imprenditore di Vaiano

Roberto Saccenti, imprenditore di Vaiano

"Quando leggo che in Germania il partito di estrema destra è la seconda formazione politica più votata alle elezioni, quando in Italia accadono gravi fatti di intolleranza, mi chiedo come oggi ci sia qualcuno che possa continuare a credere in certa ideologia oppure neghi quello che è accaduto. Mi è difficile comprendere, sappiamo quello che è stato, ci sono i racconti dei testimoni, come quelli letti attraverso la vostra iniziativa". Roberto Saccenti, imprenditore di Vaiano ha un peso sul cuore. Suo padre Luigi (ma per tutti Mario) ha visto la furia nazista. Era un soldato dell’esercito, non aveva mai nascosto le sue simpatie e ammirazione per il fascismo. In paese lo chiamavano "il generale". Dopo l’armistizio italiano del 1943 la Wehrmacht tedesca disarmò e catturò tantissimi soldati italiani. Luigi fu uno di loro. Lo presero al lago di Scutari, sui Balcani, tra il Montenegro e l’Albania. Portato prima in un campo di prigionia nei pressi di Dachau, poi in altri sottocampi nei pressi di Hannover. Per i nazisti, un "internato militare", un "traditore italiano".

Saccenti, suo padre fu liberato dai russi e riuscì a tornare a casa, dalla moglie e dal suo fratellino piccolo che, poi, malato, mori. Lei è nato nel 1947. Cosa ha saputo di suo padre e la guerra?

"So che, quando il babbo tornò a casa, in paese era malvisto. Non trovò più il suo lavoro in fabbrica. Dopo mesi di sofferenze patite sulla sua pelle, dopo avere visto da vicino tanta crudeltà, la politica e le vecchie idee non gli appartenevano più. Anzi, non ha mai votato per quella destra. Era provato nel fisico, ma soprattutto si sentiva a disagio, comprendeva dagli sguardi e dai silenzi della gente, che a lui non era concesso raccontare. Si buttò a capofitto nel lavoro di artigiano aiutato dai familiari". Le ha mai parlato di quello che aveva sentito e visto?

"Quello che ho saputo, lo devo alla circostanza che mio padre aveva mantenuto un’amicizia con un soldato di Massa con il quale aveva condiviso tutto. Due o tre volte l’anno ci ritrovavamo con le nostre famiglie. Non parlavano mai di battaglie, ma soltanto dell’orrore che aveva visto e dovuto sopportare, sotto il fucile dei tedeschi. Soltanto quando sono stato un uomo, ne abbiamo riparlato".

Cosa vorrebbe si sapesse di suo padre?

"Chi l’ha conosciuto, sa come me che era un brav’uomo. Aveva creduto nel suo dovere di soldato, ma non ha mai avuto una pensione di guerra. Lui diceva che i tedeschi l’avevano considerato un traditore e gli italiani, quando era tornato a casa, l’avevano guardato con diffidenza. Ha sofferto per questa situazione e questo ce lo ha ripetuto tante volte. Poi, all’età di settanta anni è morto. Ma la cosa più importante, quella da tenere a mente oggi, per il futuro, è che nessuno debba mai più rivivere tempi così bui e dolorosi. Mio padre non c’ più, ma questo era il suo pensiero. Lo dico a voce alta anche per lui".

Marilena Chiti