ROBERTO BALDI
Cronaca

Il sindaco comunista che apparteneva a tutti Lohengrin Landini, la nemesi della sinistra

In sella dal ’75 all’85, amava la sua gente e ne era riamato. Diceva: "Ho finito la carriera senza che nulla mi sia rimasto attaccato alle mani"

E’ la volta di Lohengrin Landini, il sindaco che più

di tutti ha caratterizzato

la Prato popolana

e realizzativa degli anni ’80, nel quadro del ’come eravamo’ caratteristico

di Prato, in cui sulle pagine

de La Nazione si sono succeduti, con il concorso fotografico di Ranfagni,

il racconto del tessile fatto

da Edoardo Nesi, lo stadio

Lungobisenzio, Filettole,

la goliardia, le botteghe

del centro, Baghino, Pugi, Giovannini, la redazione pratese de La Nazione, Fiordelli, il mondo del tessile, Vestri e il teatro Metastasio.

E il viaggio continuerà ancora per molte puntate, tutte

le domeniche.

di Roberto Baldi

Dalle finestre del salone comunale filtrava il raggio di sole di un morbido tramonto e giù da via del Pesce salivano le voci dei negozianti che abbassavano le serrande. "Senti? Questa è la mia gente per la quale ho lavorato", mi disse con un velo di malinconia. "L’incarico di sindaco è un compito delegato dalla comunità, di cui il primo cittadino è suddito e non monarca. Ho finito la carriera politica senza che nulla mi si sia attaccato alle mani e con il conto rosso in banca, dopo aver rinunciato anche al ruolo di parlamentare per stare vicino alla mia gente". Era uno degli ultimi giorni di fine mandato di Lohengrin Landini, sindaco dal 1975 al 1985, nato nella Prato popolana, primi anni di scuola interrotti per andare a lavorare in fabbrica da Foresto Bardazzi, esperienza di biciclettaio, trascorrendo gli anni del fulgore politico nella morbida piazza Sant’Agostino dove il pratese era più pratese che mai; dove il comunista verace leggeva l’Unità nella bacheca all’angolo della piazza fra gente umile e schietta. Non aveva abbandonato nessuna delle sue abitudini, a cominciare dalla bicicletta nero cromata che lo accompagnava ovunque. Era la Prato che non teneva più la chiave nella toppa di casa dove ognuno poteva entrare senza bussare e non s’andava più ai bagni pubblici con le docce e il barbiere a pagamento. Si cominciava a comprare dal Paoletti il vestito di tutti i giorni, mentre prima vi si recava solo per l’abito da matrimonio. Si passava dalle feste in casa (dove la mamma ospitante non si schiodava nemmeno quando eri abbarbicato alla figlia nei lenti su mangiadischi ’Geloso’), ai night club di Firenze, dopo essersi sciacquati della peluria dei garzi. Se n’era andato il 21 dicembre 2002 con il viavai di gente a salutare la salma in salone consiliare. Amava i pratesi e ne era riamato. Il sindaco Romagnoli lo commemorò cinque anni dopo, perché "i sindaci si commemorano nel decennio ma Landini era un sindaco speciale". Non amava gli steccati della politica: in un gemellaggio in America nel ricordo di Mazzei, dov’erano presenti anche i consiglieri comunali dell’opposizione, al sindaco della Virginia che lo presentava come comunista chiese di nominarlo come sindaco di Prato, perché era lì in America a rappresentare tutti. Fra le realizzazioni del suo decennio: la copertura delle gore per 70 chilometri, l’impianto di depurazione, il museo Pecci, la prima edizione di Prato Expo, mentre sul piano culturale nacquero la Pratoestate, il laboratorio teatrale di Luca Ronconi, la conservazione della memoria cittadina affidata allo storico Fernand Braudel, dando uno spazio alla fioritura delle arti e delle lettere che , secondo quanto scrive Nesi nello splendido ’Storia della mia gente’, può diventare prima idea industriale, poi prodotto e infine ricchezza.

In quel suo essere di tutti s’imbattè in una sorta di nemesi della sinistra pratese radicale e massimalista. Il Comune nel 2017 gli intitolò una piazza sorridente davanti alla Lazzeriniana in un’armonia architettonica fra la ciminiera, le mura medievali e il verde ospitale degli amori giovanili, perché il tempo, grande autore, trova prima o poi il suo perfetto finale. Sempre legatissima al suo campione l’adorabile moglie Maria Teresa (Marite per Lohengrin) che in un’intervista del 2016 mi ricordava : "Lui è ancora qui con me. Ci parlo e nei momenti difficili gli dico Lohengrin aiutami. Sono passati tanti anni dalla sua partenza, ma è come fosse ieri. Lo feci ammattire prima di uscire con lui. Le mie amiche di Firenze mi sconsigliavano di far trina col cenciaiolo, come si chiamavano i pratesi. Mi conquistò con quei suoi modi generosi e schietti. Cominciai a vederlo bello come il sole e ci sposammo nell’arco di sei mesi. Mi voleva bene senza fronzoli, com’era nel suo carattere forte, ma con tenerezze che alimentava in segreto lasciandomi affettuosi bigliettini ovunque. Stasera andiamo al ristorante io e te soli, mi aveva promesso prima dell’addio. Non abbiamo trovato il tempo. L’ha chiamato il Padreterno. Ha bisogno anche lui del mio Lohengrin e continua a farci rimandare la cena". Il cane bassotto, che portava il nome di Tai in omaggio all’attore Taricone idolo delle nipoti e che seguiva Marite e Lohengrin lungo l’argine del Bisenzio nelle passeggiate a seguito dell’ictus, l’accompagnava passo passo e sembrava annuire.