
Il generale Enrico Barduani guida l’intero schieramento internazionale "Ai militari italiani sono riconosciute attitudini che altri non hanno" .
PRISTINA (Kosovo)
"In 26 anni di nostra presenza le cose sono cambiate molto, ma non è cambiata la missione Kfor, che è ancora quella di garantire la libertà di movimento e quindi supportare l’attività di diplomazia per cercare di stabilizzare, normalizzare e risolvere i problemi ancora esistenti fra Pristina e Belgrado. Dal giugno 1999, momento in cui ha preso il via la missione dell’Alleanza atlantica, ad oggi, i militari impiegati sono passati da 50mila a 4600, ma se dopo 26 anni la Nato ha ancora una presenza in questa parte dei Balcani è perché i problemi non sono stati ancora risolti completamente".
Il generale Enrico Barduani, comandante della Kosovo Force, ci racconta queste cose mentre
sfiliamo di fronte alle 33 bandiere della base di Pristina che ricordano gli altrettanti Paesi impegnati nella missione definita dalla Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’Italia di militari oggi ne mette a disposizione circa 1200, il numero più alto fra tutti i contingenti. Gli Stati Uniti, ad esempio, ne contano 600. Il compito di guidare l’intera missione in questo momento è nelle sue mani.
Non una cosa semplice, però.
"Al momento l’unico strumento valido per cercare di risolvere da un punto di vista politico diplomatico i problemi ancora esistenti, ovvero il dialogo guidato dall’Unione Europea tra Pristina e Belgrado, è in realtà stagnante da oltre un decennio perché non c’è una reale volontà politica delle parti in causa di muoversi verso un futuro migliore per questa parte dei Balcani e quindi questo determina la persistenza di tensioni essenzialmente di natura interetnica e obbliga la Nato ad essere ancora presente. Giusto per dare un esempio, l’anno 2023 è stato caratterizzato da una ripresa di violenze in qualche maniera anche inaspettate nella loro entità, che hanno portato Kfor nel maggio 2023 a dover subire ben 93 feriti per cercare di arginare gli scontri".
Quali sono i compiti specifici?
"E’ una missione di stabilizzazione, deve garantire cioè un ambiente sicuro e protetto per creare le condizioni in cui la diplomazia internazionale può avere gli spazi per portare avanti la sua azione. Le azioni sono essenzialmente quelle di attività di controllo del territorio, di controllo della linea di demarcazione tra Kosovo e Serbia, di controllo dello spazio aereo e a queste attività che sono squisitamente operative ne affianchiamo altre dei team specializzati sul terreno che interagiscono quotidianamente con le autorità locali, con la popolazione per cercare di capire qual è la percezione della società e cercare di intercettare quelli che sono i reali bisogni in maniera tale poi da poter proporre sia alle autorità locali ma soprattutto alla comunità internazionale programmi specifici di supporto. Il contingente italiano all’interno di Kfor svolge esattamente questi stessi compiti, quindi da un lato compiti squisitamente militari per il controllo del territorio, dall’altro l’attenzione all’aspetto umano e sociale dell’ambiente in cui siamo inseriti".
E che l’Italia abbia avuto sempre un ruolo centrale, mi sembra un dato oggettivo.
"In 26 anni si sono alternati 29 comandanti Nato, l’Italia ha contribuito per 14 di loro, e questo probabilmente indica due cose: l’attenzione che il nostro Paese riversa su questo quadrante dei Balcani occidentali, perché ha dirette influenze anche sulla sicurezza e la stabilità del nostro Paese, e dall’altro è il segnale di come la Nato tenga in considerazione l’impegno dell’Italia in questa parte dei Balcani. Debbo dire che, con una punta di orgoglio nazionale, la Nato ci riconosce una specificità, soprattutto qui nei Balcani occidentali, che altri Alleati non hanno o non sono in grado di trasmettere, quindi il contributo italiano a questa missione è un contributo fondamentale".
Credo non si tratti solo di ’cosa’ facciamo, ma soprattutto di ’come’ lo facciamo.
"Questo è un elemento che ci è stato sempre riconosciuto. Personalmente ritengo sia legato alla nostra cultura, che è la sommatoria di tutte le esperienze che noi italiani abbiamo vissuto nell’arco della nostra storia. Gli altri ci riconoscono una capacità di attenzione alle esigenze della popolazione che non è comune, se non addirittura rara. Per esprimere meglio il concetto ci fu un termine che fu coniato proprio dagli americani per la missione in Libano degli anni Ottanta: l’Italian-way to peacekeeping. Perché per i nostri militari è una cosa innata, non nasce dall’addestramento, hanno una capacità di empatia e di sensibilità verso le esigenze che arrivano da parte della popolazione che altri contingenti internazionali non hanno. Qui in Kosovo, soprattutto nell’area che è sotto la responsabilità del Comando regionale ovest che è a guida italiana, ci sono alcune località dove sembra di stare in Italia, perché la popolazione parla la lingua italiana, ogni volta che vedono i nostri mezzi con la bandiera tricolore ci salutano, ci vogliono ospitare a casa loro".
Al di là dell’aspetto professionale, immagino che questa esperienza l’avrà arricchita dal punto di vista personale.
"Sì, certamente. Ogni impiego all’estero porta con sé due aspetti. Quello professionale, ogni missione è una realtà a sé stante e quindi non fa che accrescere il bagaglio di esperienze professionali che uno ha. C’è poi il lato umano e anche in questo ogni missione ha una sua specificità. Forse non ci si rende conto di quali sacrifici personali rappresenti, nel caso mio, dei miei collaboratori, partire per una missione con l’entusiasmo professionale, ma al tempo stesso la consapevolezza che passare un anno lontano da casa, lontano dagli affetti, è un peso che a volte diventa anche difficile da gestire sotto il punto psicologico. Per questo in queste attività all’estero si creano e si sviluppano rapporti interpersonali tra noi italiani che non hanno uguali. Ogni esperienza di impiego operativo all’estero porta con sé un bagaglio umano che è impagabile e diverso da missione a missione. Io sono sicuro che quando terminerò ad ottobre l’anno di mandato sarò combattuto fra la tristezza di dover lasciare collaboratori e colleghi con cui si sono creati rapporti eccezionali e la gioia di poter riabbracciare i miei cari e riabbracciare la mia città di adozione che è Grosseto".