ERIKA PONTINI
Cronaca

Rocchi, la solitudine del numero 1. Vita, pensieri e rimpianti: “E’ difficile anche andare a ballare”

Il designatore Gianluca Rocchi: “Gestire la tensione in campo aiuta a maturare. Ero un calciatore scarso e un bimbo timido. Ho sempre vissuto a Soffiano. Mi manca il campo e ancora non mi perdono quel rigore mai dato”

Rocchi, la solitudine del numero 1. Vita, pensieri e rimpianti: “E’ difficile anche andare a ballare”

Firenze, 3 agosto 2025 – Gianluca Rocchi, fiorentino doc, dove è nato?

“A Firenze e vivo a Soffiano da sempre. Mi sono spostato venti metri di casa”.

Il ricordo di bambino.

“Il primo giorno di scuola, ero terrorizzato. Uno di quei bimbi attaccati alla gonna di mamma, fortuna l’arbitraggio che mi ha sbloccato”.

Gianluca Rocchi
Gianluca Rocchi

Quando compare il calcio?

“A dieci anni con la Cattolica Virtus. Mi piaceva ma non ero particolarmente portato”.

Quando ha deciso di saltare il fosso e perché?

“Un amico mi dice ‘fai un’altra esperienza’ e mi consiglia di provare ad arbitrare. Inizi quasi per scherzo, senza pensare di arrivare qui e senza sapere che palestra di vita sarebbe stata. Ti forma come uomo”.

La prima partita arbitrata?

“A 16 anni. E’ stato il momento che mi ha cambiato la vita. San Casciano-Val di Pesa: mi accompagnò la mamma e ricordo come fosse ora l’ingresso in campo. Un’emozione. Quando emisi il primo fischio i bambini si fermarono, mi ascoltavano. Quasi non ci credevo”.

Questione di potere?

“No, è il momento in cui senti di doverti prendere delle responsabilità”.

Dietro quella scelta cosa c’era: protagonismo, portare giustizia in campo oppure non era un granché a pallone?

“Sarebbe una deminutio, molti arbitri sono bravi a giocare e adesso i giovani possono anche farlo. Essere protagonista non mi piace: l’arbitro protagonista non ha capito il suo ruolo, quello di essere al servizio della partita. Dietro quella scelta c’è un senso di giustizia e una sfida personale”.

Intervista a Gianluca Rocchi, arbitro e designatore (Giuseppe Cabras/New Press Photo)
Intervista a Gianluca Rocchi, arbitro e designatore (Giuseppe Cabras/New Press Photo)

I mali di fare l’arbitro?

“Si ricordano di te solo quando sbagli”.

Arbitri disonesti?

“Nemmeno li prendo in considerazione... Piuttosto un arbitro non fa il suo lavoro quando non è equilibrato e coerente, quando non riesce involontariamente a utilizzare lo stesso metro con tutti, un senso di equità che ti accompagna ovunque. Lo vedo con i miei figli: l’idea di dare 51 a uno e 49 all’altro è la cosa peggiore, in campo e nella vita”.

E’ difficile non sbagliare?

“Impossibile, siamo umani, la capacità di un bravo arbitro è sbagliare meno possibile e non commettere errori evitabili. Quei 2-3 che ho commesso sono quelli che avrei potuto evitare. E ti restano addosso per sempre”.

Cosa non si perdona?

“Il rigore non concesso in Bologna-Milan, lo potevo concedere se avessi avuto un posizionamento a palla ferma diverso, è stata superficialità e l’ho pagata cara. Non me lo perdono. Altre volte ho sbagliato ma sapevo di aver fatto il massimo”.

Hai mai pianto?

“Sì, tante volte, dalla rabbia e dal dispiacere”.

E ha mai pensato di mollare?

“Certo, è giusto ammettere le proprie debolezze”.

La partita che vorrebbe riarbitrare?

“Spagna-Portogallo al Mondiale 2018 e Chelsea-Arsenal finale di Europa League: sono amante del calcio inglese, è il massimo. La prima fu un 3-3 spettacolare, una partita difficile da ripetere”.

Ma tornerebbe in campo?

“Tornerei in campo 6-7 anni, a me manca tantissimo l’adrenalina che ti dà la partita”.

Cosa dice ai tanti giovani colleghi picchiati e insultati nei campi di periferia?

“Ai genitori piuttosto. Quel ragazzo in divisa è come i loro figli e permette loro di disputare una partita onesta. Se vinci con un arbitro equo hai vinto bene”.

Questi ragazzi come resistono?

“Ho un figlio che fa l’arbitro. Posso capirli, un ragazzino di 16 anni di farsi offendere ha poca voglia, ma dico loro che è un’esperienza anche quella, perché si impara a resistere alle tensioni. Purtroppo spesso sono critiche incivili che ti mettono addosso tanta rabbia”.

E lei come si è sentito da solo in campo, preso di mira da migliaia di tifosi?

“La verità è che si sentono più nelle gare piccole. Mi dicevano ‘ma come fai a stare in mezzo a 60mila persone che ti insultano’. Io mica li sento e poi con 15 anni di esperienza alle spalle è diverso. Il rischio è che ti deconcentri e non pensi alla partita. I giovani devono essere bravi a isolarsi, un bel training”.

Gli arbitri dovrebbero parlare di più ai tifosi durante la partita o restare una casta muta?

“Noi siamo tutto tranne che muti perché ci siamo aperti tantissimo, qualcuno dice che parliamo anche troppo. Facciamo sentire anche le nostre conversazioni, l’intimità dell’arbitro con il Var. Ricordiamoci che siamo giudici che meno parlano e meglio è”.

Cioè parlate con le sentenze?

“Noi con i provvedimenti”.

Quindi zitti.

“No, anzi. Io sono pro comunicazione. Ma non sono favorevole a far parlare gli arbitri dopo la partita, a caldo ci sono troppe cose da digerire, serve sangue freddo. Vale per gli arbitri e – lo dico a tutti ma nessuno mi ascolta – per gli altri: nessuno dovrebbe parlare dell’arbitraggio subito dopo”.

L’introduzione della spiegazione dell’arbitro dopo la decisione della Var sarà utile per fugare dubbi e polemiche?

“Tutto quello che è trasparente è utile ma non sarà semplice. E’ una possibilità di chiarezza live, ma serve una preparazione importante. Dobbiamo lavorare sulla comunicazione. Quest’anno lo faremo in campionato e l’esperienza ci dirà se è uno strumento giusto”.

La regola del calcio che le piace di meno.

“Tutti i provvedimenti disciplinari in area rigore. Con fallo da rigore toglierei ammonizioni ed espulsioni, perché battere un penalty è già un gran vantaggio. Non è una regola, ma in pratica stiamo andando in quella direzione”.

Azzardiamo una domanda in fuorigioco: per quale squadra fa il tifo?

“L’arbitro non ha squadra. Esci dal campo e nessuno deve avere da dire su di te, oggi ancora di più che rispondo per gli altri”.

Il calcio è anche in mano ai social, l’arbitro dovrebbe aprirsi di più a questa forma di comunicazione?

“Non sono un amante dei social, sarà che sono vecchio (penso ancora che allo stadio dobbiamo andare con l’abito), e ci stanno creando problemi, ma capisco che se ti devi rivolgere ai ragazzi devi usarli. La mia associazione si sta aprendo”.

Una domanda personale: è più difficile il rapporto con le donne della sua vita o con i calciatori in campo?

“Con le donne, i calciatori li gestisci meglio, con le donne fai proprio fatica a volte. Ma sto parlando solo della mia vita privata. Sul lato professionale invece sono tenaci e hanno una marcia in più”.

Ha un figlio che fa l’arbitro. Che consigli gli dà?

“Ha deciso lui, non gli ho messo alcuna pressione, consigli me ne chiede pochissimi. Come l’altro che gioca a tennis, è stata una sua scelta ma calcio e tennis sono le mie passioni”.

Quando non lavora cosa fa?

“Mi piace giocare a tennis e viaggiare, vorrei farlo molto di più ma ho poco tempo”.

Un posto nel cuore?

“Rio De Janeiro. Natura, calore, musica, divertimento. A me piace. Quando posso esco la sera e nemmeno quello è semplice”.

Le piace la Meloni?

“Di politica non rispondo. Ma una cosa me la faccia dire…”.

Prego

“Sono fiero di essere italiano e vorrei che la gente lo fosse di più”.

Firenze, come la vede?

“Anche se fa caldo e c’è traffico non la cambierei con niente. Vedo una città con molti più servizi ma mi occupo di arbitri grazie a dio, non di città e non farei mai il sindaco”.

Lei crede in Dio?

“Sì”.