Firenze, 28 giugno 205 – Quando il marito, il 51enne Antonino Ciavarello, viene arrestato a Malta per frode e ricettazione e poi estradato in Italia, Maria Concetta, primogenita del sanguinario boss di Cosa nostra Totò Riina, tocca il fondo. Alla ricerca disperata di soldi, scorre la rubrica degli amici e comincia a mandare messaggi. Che quando provengono da chi porta il cognome del capo dei Corleonesi, il “capo dei capi”, assumono il sapore di un’estorsione a cui è difficile dire no.
E con l’aggravante del metodo mafioso: con questa accusa, la Dda di Firenze ha ottenuto la misura della custodia cautelare in carcere per i due coniugi siciliani. Lo ha stabilito il tribunale del Riesame toscano, ribaltando il diniego espresso nei mesi scorsi dal gip. L’esecuzione del provvedimento è però sospesa: sarà esecutiva quando e se sarà confermata dalla Cassazione, a cui i legali di Ciavarello e Riina faranno ricorso.

Moglie e marito (nonostante quest’ultimo fosse recluso a Rieti) avrebbero avanzato “continue, ripetute, insistenti e pressanti” richieste di denaro a due imprenditori toscani di loro conoscenza: l’amministratore delegato di un’azienda di Colle Val d’Elsa, un imprenditore della provincia di Pisa.
Alla fine, il primo consegnerà un migliaio di euro e un pacco da 45 chili con generi alimentari e, spaventato, denuncerà anche la situazione ai carabinieri del Ros. L’altro, nonostante l’insistenza, eviterà di pagare: aveva offerto 200 euro ma la Riina non li accettò. Forse, nonostante la necessità, quella cifra ’irrisoria’ la figlia del boss la percepì come un’offesa. Al suo nome. Perché agli atti del procedimento sono finiti una sfilza di messaggi inviati su whatsapp (scritti, vocali e foto) del tipo: “Noi siamo sempre gli stessi di un tempo, le persone non cambiano, anche se si allontanano”. “Un tempo”, per il pubblico ministero e per il tribunale del Riesame, è un riferimento alla fama criminale dei Riina, “quelli che un tempo erano coloro che comandavano Cosa Nostra, altamente evocativo della forza di intimidazione e delle condizioni di assoggettamento e omertà che ne derivavano”.

Ciavarello aveva conosciuto l’imprenditore di Colle Val d’Elsa una ventina d’anni fa per un contratto di fornitura di gadget e ricami. Nacque un’amicizia, tanto che il senese e la moglie vennero anche invitati a Corleone al battesimo del nipote del boss.
Dopo anni in cui non si erano più sentiti, Maria Concetta Riina lo ricontattò per chiedergli un aiuto economico nell’agosto dell’anno scorso. Dando il via a una sequenza di sms: “Questo è il mio Iban, ti ringraziamo tutti noi per quello che potrai fare”. “Siamo davvero in una brutta situazione credimi qualunque aiuto è ben accetto, so che farai ciò che puoi”. Al no dell’imprenditore: “Mi stai dando una grossa mazzata, speravo che potevi aiutarmi anche con poco”.
Gli inquirenti stanno valutando se applicare forme di protezioni alle presunte vittime dell’estorsione. Va detto che il giudice delle indagini preliminari aveva dato una lettura diametralmente opposta all’atteggiamento della Riina e di Ciavarello nei confronti degli imprenditori: “Nessuna minaccia è stata rivolta loro, bensì molestie e insistenti richieste, più idonee a una questua che a un’estorsione”. Quale magistrato ha dato la giusta interpretazione lo stabilirà la Cassazione.