
Cesare Picco, pianista vercellese, pronto ad eseguire il “Köln Concert”
di Andrea Spinelli
C. GARFAGNANA (Lucca)
A sentire lui il “Köln Concert” è un’opera brutta, ripetitiva. E passi se ha venduto 4 milioni di copie. Lui, ovviamente, è Keith Jarrett, non certo nuovo a opinioni destabilizzanti come questa, costretto a rimanersene lontano dalle celebrazioni del cinquantennale di quel suo album mai amato, ma benedetto dal dio del jazz, per carattere e per le conseguenze dei due ictus che nel 2018 gli hanno compromesso l’uso della mano sinistra.
In Italia ci pensa il pianista vercellese Cesare Picco ad eseguirlo domani, al sorgere del sole, nella suggestiva cornice della Fortezza di Mont’Alfonso a Castelnuovo di Garfagnana. Convocazione alle 4:45, per iniziare la giornata di Ferragosto ancora nell’oscurità. Picco eseguirà questo suo “The Köln Concert: 1975-2025”, variazioni su quei 59 minuti e 9 secondi che hanno reso il pianista di Allentown, oggi ottantenne, un semidio, pure al Teatro di Fiesole il 7 novembre, ingrossando così un’ondata di iniziative impreziosita dal documentario, “Lost in Köln” di Vincent Duceau, e da un film, “Köln 75” di Ido Fluk, legati entrambi alla figura di Vera Brandes, tenacissima promoter tedesca che il 24 gennaio del 1975, appena diciannovenne, organizzò l’evento tra mille peripezie.
Picco, toccare un best seller è sempre una bella responsabilità.
"Seppur cresciuto a pane, Bach e Jarrett, fino a qualche anno fa mi sarei tirato indietro dall’idea di affrontare un’impresa del genere, ma ora penso di avere la maturità artistica giusta per mettermi alla prova".
Il “Köln Concert” rimane un mondo a sé, nonostante i concerti per solo piano registrati da Jarrett 18 mesi prima a Brema o Losanna siano tecnicamente superiori.
"Stiamo parlando un’ora di musica totale capace, con i mezzi della grandissima meditazione, di spingersi al di là. Non si può pensare, infatti, di produrre un’ora di musica a quei livelli senza ammettere un meraviglioso stato di coscienza".
Sera dopo sera, ha capito qual è il segreto del successo del disco?
"Quello che riuscì a fare attorno alla metà degli anni ’70 si deve pure ad una ‘sapienza pop’, ovvero all’utilizzo nei suoi concerti i codici della musica popolare per frantumare ogni barriera stilistica. A ben guardare, infatti, i tre accordi su cui Jarrett poggia le sue improvvisazioni sono gli stessi usati da gente come Hendrix, Dylan o la Mitchell".
A Colonia Keith chiese un Bösendorfer 290 Imperial gran coda, ma si ritrovò sul palco un 3/4 di coda dal timbro sottile, un pedale malfunzionante e bassi “scarichi“. Ci volle del bello e del buono per convincerlo ad andare in scena...
"Non avrebbe voluto neppure registrare l’esibizione, ma il suo amico Manfred Eicher, titolare dell’etichetta Ecm, riuscì a convincerlo. Filologicamente ho scelto per il mio spettacolo la stessa marca e lo stesso modello di pianoforte e, siccome quello era uno strumento disastrato, ho chiesto al capotecnico della Bösendorfer di agire su meccanica e martelletti per trasformare la fuoriserie in un’utilitaria".