ANDREA SPINELLI
Cronaca

Diodato e il sacro silenzio del Musart: "La rivoluzione vera parte dalle paure"

Domani al Parco Mediceo di Pratolino c’è l’uomo di “Fai Rumore“: "Le storie d’amore il discrimine di tutto"

Diodato si esibirà domani al Musart, al Parco Mediceo di Pratolino

Diodato si esibirà domani al Musart, al Parco Mediceo di Pratolino

di Andrea Spinelli

Al Parco Mediceo di Pratolino, sotto la luna e le stelle del Musart Festival, arriva domani sera Diodato. "Il teatro è un luogo molto più neutro, che puoi adeguare molto più alle tue esigenze di quello all’aperto, perché lì hai il sacro silenzio, il buio totale, e quindi i parametri diversi da quelli dell’estate, quando sei tu a doverti adattare alle suggestioni dei luoghi in cui vai a suonare" racconta l’uomo di “Fai rumore” col pensiero alle suggestioni di Villa Demidoff. "Ecco perché a me piace un sacco. Cambiano gli umori, cambia la relazione col contesto che hai attorno e cambia pure la scaletta".

All’aperto ci sono molte più variabili. "Sì. Prenda, ad esempio, il vento. Nelle mie canzoni lo cito spesso e può accadere di sentirmi il volto carezzato da un refolo mentre canto, trovandomi realmente catapultato in quel che sto cantando".

Un luogo a cui le piacerebbe adattarsi emotivamente per un concerto? "Avendo un rapporto speciale con il mare, sicuramente un luogo in cui farsi dettare i ritmi dal flusso delle onde. Pantelleria, perché no? Dove oltre al respiro del mare ci sarebbe pure quello del vulcano su cui poggia".

Il suo ultimo singolo “Non ci credo più” da che esigenza nasce? "Da quella di invertire, capovolgere, una narrazione. Quella che ci vuole impotenti, distaccati, da quel che vediamo in strada o alla tv quotidianamente. E che cerca in qualche modo di alimentare quel nostro senso di debolezza davanti alle catastrofi ambientali, umanitarie, alle vessazioni, ai massacri, ai genocidi. Ecco, io non credo a questo tipo di racconto, ma piuttosto nel potere che abbiamo d’intervenire sul reale, sulla vita di tutto i giorni. E della forza che nasce dal farlo tutti assieme".

Una narrazione a cui non credere assolutamente? "Non posso credere che uno stato libero e democratico possa realmente ritenersi nel giusto compiendo crimini come quelli perpetrati nella striscia di Gaza. E che il mondo accetti una cosa del genere".

In questo contesto le lingue "allenate a battere il tamburo" degli artisti, per dirla con De André, fanno abbastanza? "Si potrebbe fare molto di più. Però, qualcosa, si sta facendo. E trovo giusto sottolinearlo, amplificarlo, per non cadere nel senso d’impotenza di cui sopra. A Washington c’è un presidente degli Stati Uniti che minaccia di deportare un candidato sindaco di New York perché ha una visione del problema migratorio diversa dalla sua. Davanti ad atteggiamenti del genere la popolazione tutta dovrebbe scendere in piazza e far capire quanto inaccettabile sia solo dire certe cose. Viviamo, infatti, un teatro dell’assurdo a cui sarebbe molto, molto, pericoloso abituarsi".

Dal singolo precedente “Un atto di rivoluzione” ha iniziato un percorso tutto suo visitando associazioni impegnate nel campo del sociale che con la loro attività compiono ogni giorno atti “rivoluzionari”. "In queste cose si parte sempre da sé stessi, dalle proprie paure. Avevo un tour gremito e un pubblico carico d’affetto ogni sera sotto al palco, così mi sono chiesto se quella mia felicità non fosse in qualche modo limitata, relativizzata. E cosa avrei potuto fare per vivere in maniera sana quel che mi stava accadendo, così ho trovato fondamentale incontrare persone che hanno deciso d’impegnarsi in prima persona, di rimboccarsi le maniche, e ho semplicemente pensato di raccontare le loro storie. Storie d’amore, perché quello è il discrimine di tutto".