
Il rapper domani sarà sul palco centrale del Festival a Serravalle "Sono fortunato: questo mestiere lo avrei fatto comunque, anche gratis" .
di Ylenia Cecchetti EMPOLI Guglielmo, oggi è il suo compleanno, ma è lei che fa un regalo alla città. Prima volta a Empoli? "Una decina di anni fa (all’epoca giravo solo io con il dj) mi sono esibito al Csa Intifada di Ponte a Elsa. E in Toscana vengo spesso; con me al Beat ci sarà Pugni, giovane cantautore pisano che spesso apre i miei concerti. Un po’ di Toscana ce la portiamo sempre dietro in tour".
È uno che li festeggia, i compleanni, lei? "Non sono abituato. Stavolta la cifra è tonda (sono 40, ndr) e gli amici mi stanno mettendo pressione. Fortuna vuole che sarò impegnato in tre date consecutive. Arriveremo a Empoli dopo due giorni di festa. Cercheremo di essere presentabili, promesso".
Cosa si augura per questo traguardo? "Niente in particolare. Mi sento già fortunato a fare di mestiere ciò che avrei fatto comunque, anche gratis".
Cosa la rende felice? "La musica. E i ragazzi che mi accompagnano sono musicisti incredibili: la loro presenza mi dà certezze sulla bontà di quel che faccio".
Citandola: "Se fossimo in me saremmo in troppi". Quanti Willie Peyote vedremo domani (l’appuntamento al parco di Serravalle nell’ambito del “Beat festival“ è per il 29 agosto, ndr)? "Il nome sul manifesto è il mio, ma porterò la band, che è il cuore dei concerti. Dare importanza alla squadra fa la differenza. Io, per età, mi sento il capitano; se gioca male un giocatore, giochiamo male tutti".
E dall’altra parte, chi c’è? Che tipo di pubblico incontra ai suoi live? "Cambia nel tempo e nei luoghi, dipende. Quest’anno il fatto di arrivare da Sanremo ha influito, spingendo anche chi non ci conosceva ad avvicinarsi. C’è stato un ringiovanimento complessivo, molti più ragazzi rispetto all’ultimo tour".
A proposito di Sanremo, non c’è due senza tre…? "Negativo. Sono stato due volte in cinque anni: bellissimo. Ma dal casinò bisogna uscire quando si sta ancora vincendo, altrimenti si rischia di perdere tutto".
Cosa cercano i ragazzi di oggi nella musica? "Non so davvero come sia essere ragazzo nel 2025. La musica si sta omologando; un unico genere, un unico suono. L’industria dovrebbe porsi il problema di non appiattire troppo i gusti. Un’offerta varia è educativa. Altrimenti daremo ai giovani poche possibilità di farsi un’idea personale".
E nei suoi testi cosa trovano? "C’è il tentativo di affrontare tutte le sfaccettature della vita quotidiana, andare oltre l’amore che governa i testi musicali da sempre. Mi interessa raccontare i momenti di difficoltà con la giusta ironia. E non nasconderli. Oggi sui social ci mostriamo tutti come perfetti: è una narrazione che annoia. Io cerco il racconto al contrario, l’antieroe che perfetto non è e rivendica le proprie imperfezioni".
Il pubblico è ancora propenso ad ascoltare brani di contenuto? "Mai dare la responsabilità al pubblico. Al massimo, ripeto, è l’arte che non educa più a cercare qualcosa di diverso da ciò che funziona. Un artista che non scrive ciò che pensa perché teme di non essere ascoltato? Colpa sua".
A cosa dobbiamo rispondere "Grazie ma no grazie"? "Puoi scegliere tu. È un modo gentile e vagamente ironico per ribadire cosa non ti piace. È prendere posizione, assumersi la responsabilità di quel che si pensa: un concetto che si è perso. Non ci esponiamo per paura del giudizio. Ma, coraggio. Ci sarà sempre qualcuno che la pensa come noi".
L’ultima volta che lo ha detto? "Tutti i giorni, in ogni scelta che faccio, anche lavorativa".
Una sua canzone a cui è più legato? "“Ma che bella giornata“. Mi ricorda il giorno in cui mi sono licenziato per inseguire la mia passione, anche a costo di perdere qualcosa. Un momento che si è poi rivelato fortunato".
Un tema decisamente attuale... "Si parla tanto di dimissioni. Ma la mia esperienza è diversa: avevo 29 anni. La gavetta serve a costruirsi un futuro. Sui social l’errore è fare di tutta l’erba un fascio, lì tutto è assolutista. O bianco, o nero. Il concetto di lavoro sottopagato – di cui dovrebbero occuparsi di più le istituzioni – è sbagliato. Ma è diverso dal non accettare mai compromessi nella propria vita. Di lavoro, se ne parla troppo poco: farlo dove non ci sono le competenze ne svilisce il senso".
Indie, rap, pop: a che categoria sente di appartenere? "A tutte".
È un rapper senza tatuaggi… "Un po’ come il calabrone che, teoricamente, non potrebbe ma vola lo stesso".
Che idea si è fatto dei messaggi violenti nella trap? "I rapper sono espressione della società in cui vivono. Bisogna chiedersi: questi ragazzi dove la vedono questa vita e perché? Raccontano un mondo che esiste. E non è mai colpa dell’arte se la realtà è brutta".
Domanda d’obbligo, per chiudere: ma il peyote, l’ha mai preso? "No, dovrei andare fino in Messico. E poi ha una certa sacralità nel suo utilizzo. Ma non faremo l’elenco delle cose che ho assunto, vero?".