
L’opuscolo ritrovato dal corrispondente de La Nazione Alfredo Bennati fece nascere il Saracino: svelato chi si cela dietro lo pseudonimo
Luca
Berti
Una delle opere letterarie meglio conosciuta fra le tante prodotte dagli eruditi aretini del Seicento è sicuramente quella intitolata "Feste celebrate in Arezzo l’anno MDCCLXXVII (1677) dall’Accademia degli Oscuri, e suo Principe, per la solennità di San Niccolò, inviate dall’Accademico Discorde detto il Sempre Innocente all’illustrissimo signor Barone de’ Siri".
Nell’opuscolo, stampato in città nel 1678 con l’inedita marca tipografica “All’Insegna del Sole” (mai più utilizzata in seguito), si dà conto dei variegati festeggiamenti svoltisi l’anno precedente in città per una decina di giorni. Fra gli eventi è annoverata una giostra di Buratto della quale sono riportati integralmente i “capitoli” ossia le regole del torneo, i testi del bando e della disfida ("Non più d’usati onori aure cortesi...") e la dettagliata descrizione delle varie fasi del torneo, completando la narrazione con le raffigurazioni del Buratto, intero e smontato, e del suo scudo- bersaglio.
Si tratta del più analitico e dettagliato resoconto esistente in ambito aretino di una giostra, fra le tante svoltesi in città fra il 1535 e il 1904, di molte delle quali ci è giunta soltanto una fugace memoria.
Stando così le cose, non stupisce che, quando nel 1931 si pensò di riportare in vita la tradizione giostresca, ambientandola nell’Arezzo medievale, sia stato proprio il libretto del 1678 a fare da calco al rinnovato torneo cavalleresco, seguendo il suggerimento venuto dal giornalista de La Nazione Alfredo Bennati. Sfogliando l’opuscolo – nella riproduzione anastatica fattane nel 1987 dal fiorentino “Studio per edizioni scelte” (Spes), ché l’originale non è più presente in Biblioteca – si ha conferma non soltanto che l’opera è dedicata al barone Niccolò de’ Siri, ma anche che ben otto delle 60 pagine complessive sono spese per decantarne la vita e le imprese, insieme alle virtù della figlia Laura.Evidentemente l’autore, celato dietro lo pseudonimo “Il Sempre Innocente”, doveva avere nei suoi confronti un forte debito di riconoscenza che volle in questo modo saldare.
L’increscioso caso giudiziario in cui era incorso pochi anni prima Cosimo Paccinelli autorizza ad ipotizzare che fosse proprio lui, fra i letterati aretini del momento, ad avvertire il bisogno di sdebitarsi e nello stesso tempo di proclamare la sua innocenza di fronte alla città.
All’inizio del mese di febbraio del 1674, il Paccinelli, nella sua veste di “spedaliere” e appoggiato dalla moglie (una Signorini di Firenze), aveva accusato di stupro (“delitto venereo”) un cordaio aretino di 22 anni, tal Anton Francesco Rubbi, che durante il ballo di carnevale organizzato all’interno dell’ospedale di Santa Maria sopra i Ponti avrebbe abusato di una ragazza di 20 anni di nome Maria Caterina, cresciuta lì dentro come trovatella, per poi darsi alla fuga attraverso l’alveo del Castro, dopo essere stato scoperto.
Subito dopo il fatto i due si erano uniti in matrimonio, rendendo praticamente inevitabile l’assoluzione dell’intraprendente giovanotto, che per altro aveva rinunciato alla dote ed aveva anzi donato 300 scudi all’ospedale. Al contrario il Paccinelli prima era stato rimosso dalla carica dai rettori della Fraternita per omessa vigilanza, poi era stato deferito all’auditore delle Bande granducali di Firenze, delle quali faceva evidentemente parte, non potendo essere inquisito in Arezzo per il privilegio di Foro di cui godeva, una volta emerso nel corso del processo il suo malanimo verso il cordaio e quindi la natura calunniosa della sua accusa.
Si era infatti accertato che era prassi abituale delle “esposte” cresciute nell’ospedale, una volta giunte in età da marito, amoreggiare con i giovani aretini e poi convolare a giuste e riparatorie nozze.
È plausibile credere che sia stato proprio l’intervento di Niccolò Siri, mercante fiorentino arricchitosi in Polonia, già ambasciatore granducale alla corte imperiale di Vienna, dove la figlia aveva sposato l’aretino Giovanni Chiaromanni, a togliere dall’impaccio l’incauto Paccinelli. Sappiamo per altro che protagonista di una delle sue precedenti opere teatrali è un “re delle Indie” dal predittivo nome di Avenereo (alfa privativo + venereo), sovrano dello stesso reame di quel Buratto che da tempo immemorabile dà nome alla giostra aretina.
Allo stato delle cose, del fatto che dietro lo pseudonimo di “Sempre Innocente”, mai più utilizzato in seguito, possa nascondersi il Paccinelli non abbiamo prove sicure. Per altro, dell’intervento in suo favore del Barone è inutile cercare una conferma tra le carte del Tribunale fiorentino delle Bande, andate per quest’epoca irrimediabilmente perdute.
Gioverà comunque ricordare che, rientrato in Toscana da Vienna, il Siri venne a stabilirsi ad Arezzo, dove ebbe importanti incarichi militari, dove la figlia Laura sposò in seconde nozze Antonio Albergotti (dando così origine alla famiglia degli Albergotti Siri) e dove fu tumulato nel 1698 nella chiesa di Sant’Ignazio in una sepoltura ancor oggi visibile.