"Non meritava di morire così, qualunque fosse la sua colpa". "Lo ha lasciato a terra, come un animale". Nourdine Naziki non era un santo. Viveva di espedienti e furti. Piccoli e grandi, non fanno differenza. "Era comunque un nostro fratello", commenta don Luigi Sonnenfeld. È lui, il prete operaio della chiesetta dei Pescatori in Darsena, a guidare il corteo silenzioso promosso dal Forum della Pace di Viareggio per ricordare il marocchino morto dopo essere stato investito da un’imprenditrice balneare, Cinzia Dal Pino, a cui poco prima aveva sottratto la borsa. Cammina appoggiandosi al bastone don Luigi, dietro di lui, in silenzio, sfila la fetta di città che vuole marcare la distanza dalla "giustizia fai da te". Tantissimi pensionati, qualche sindacalista e qualche famiglia con i figli per mano. Tutti portano un fiore, ranuncoli bianchi. Dietro a don Luigi alcuni rappresentanti della comunità marocchina a cui, in qualche modo apparteneva anche Nourdine, che pure si presentava come “Said, dall’Algeria". Espongono uno striscione con la scritta "Giustizia per Nourdine".
"Quella giustizia che per ora – spiega uno di loro in Italia da 34 anni – non vediamo. Come può essere già a casa la donna che lo ha investito?". Chiede e s’iinfervora davanti alle telecamere delle televisioni. Il corteo (tra duecento e trecento persone, c’è chi dice 500) si muove da sotto il Comune. "La casa di tutti", sottolinea don Luigi. Poi, lentamente, attraversa il ponte girante e s’incammina nella Darsena, lungo via Coppino fino al punto in cui è avvenuto "un brutale omicidio", commenta una donna mentre posa la sua rosa sul marciapiede in cui ha trovato la morte Nourdine Naziki.
Il sabato di metà settembre è tiepido. I cantieri dove si costruscono i grandi yacht che fanno di Viareggio la capitale della nautica di lusso sono chiusi. Dalle finestre si affacciano alcuni residenti, mentre degli automobilisti restano bloccati in attesa che sfili il corteo. Tutti hanno in mano il proprio smartphone e improvvisano qualche diretta sui propri profili social.
Segno di una vita che si consuma in diretta. Anche quando termina, come quella di Nourdine ripresa dalle telecamere di videosorveglianza e rilanciata dai social. generando commenti e alimentando odio. "Anche quando qualcosa in questa storia non torna – commentano alla fine una donna con due amici –. Perché non ha chiamato la polizia? Perché non ha chiesto aiuto ai passanti o alle amiche? E perché lui camminava tranquillo dopo aver rubato la borsa?".
Interrogativi che restano sospesi. Che alimentano la curiosità e generano altri e nuovi scenari. Come se fosse l’incipit di una serie crime. Solo che questa è la realtà, di una città sospesa e fragile. In cui due mondi diversi si sono scontrati per una pochette. Di una città che prova a ritrovarsi.