Viareggio, 5 dicembre 2023 – “Niente sarà più come prima". Queste parole accompagnano Viareggio dall’alba dopo il 29 giugno 2009, dalla notte in cui via Ponchielli venne investita dall’esplosione di fuoco scatenata dal deragliamento di un treno merci carico di Gpl lanciato sui binari senza un’adeguata manutenzione né tracciabilità (come hanno stabilito 4 sentenze, e 14 giudici). Cinque parole che accanto alle fotografie delle 32 vittime di quell’inferno danno la profondità abissale del vuoto che il disastro ferroviario ha lasciato. L’irreversibilità di un dolore che solo la giustizia, forse quella, potrà rendere almeno sopportabile.

"Perché il nostro dolore nessuno potrà cancellarlo, non andrà mai in prescrizione" ha ribadito anche ieri Daniela Rombi . Che ha visto sua figlia lottare per 42 giorni in ospedale, e morire d’agosto, a vent’anni, in seguito alle ustioni che quella notte di giugno le aveva lasciato addosso. E che, con gli altri familiari, ha visto la prescrizione correre più veloce dei tempi processuali, e prendersi tre capi d’imputazione: incendio e lesioni colpose gravi e gravissime, poi gli omicidi colposi a seguito dell’esclusione dell’aggravante della violazione delle norme sulla sicurezza nel lavoro per decisione della prima Cassazione.
Quello striscione, che raccoglie tutto il futuro rubato dalla strage e quelle cinque parole inappellabili “Niente sarà più come prima“, e che è diventato una bandiera, accompagnando i familiari delle vittime nella battaglia per la verità e la sicurezza sui binari che ha attraversato Viareggio e l’Italia, ieri era ai piedi della Suprema Corte. Steso sulle scale del Palazzaccio in piazza Cavour, a Roma, per raccontare il prima e il dopo 29 giugno 2009, la frattura che quel treno gonfio di Gpl e mal manutenuto ha causato nell’esistenza di una comunità. E "di fronte a tutto questo – ha detto ancora Daniela, prima di entrare nell’Aula Magna dove in passato ha già atteso la sentenza a fianco delle madri della Tyssen – la cosa brutta, grave, è che adesso assistiamo anche al tentativo di far cadere in prescrizione pure l’ultimo reato", quello di disastro ferroviario colposo.
Il riferimento di Rombi è alle questioni di costituzionalità sollevate dalle difese degli imputati nei diciotto ricorsi presentati. "Sembra assurdo ma è così, a questo punto – ha aggiunto – si arrampicano a qualunque specchio per non andare in galera. Ma le responsabilità ormai sono state acclarate, sono certe e chiare fin dall’inizio. Le condanne sono minime, non paragonabili a ciò che è successo. Ma va bene. L’impunità però no, non possiamo accettarla. Questo procedimento va chiuso".
Dopo quattordici anni e mezzo e un processo lunghissimo, iniziato con l’incidente probatorio del 7 marzo 2011, adesso solo due udienze, dopo oltre duecento che ne sono passate, separano i familiari di Viareggio dal verdetto. Nel frattempo alcuni di loro se ne sono andati aspettando giustizia, vinti da malattie o dal tempo. Altri, invece, si sono fatti uomini e donne. Come Leonardo, che quella notte di giugno aveva 8 anni.
Ed è per Leonardo, l’unico figlio scampato al disastro, protetto da una trave mentre la casa gli crollava sulla testa, che Marco Piagentini ha lottato contro le ustioni che l’inferno gli ha provocato. Ha lottato per sopravvivere e tornare a vivere. "Perché – ha detto Marco in una recente intervista – avevo la responsabilità di accudire mio figlio, che quella notte aveva già perso sua madre e i suoi fratelli". Stefania, Luca e Lorenzo, uccisi dalle fiamme. "Anche Leonardo è cresciuto con un’aspettative di giustizia. E nei fatti sta vedendo che nonostante le responsabilità nessuno sta pagando. Questo – ha concluso Marco – è il messaggio più deleterio che un Paese civile può dare ai giovani".