
L’etoile della Scala: "Insegnare è scoprire le fragilità degli allievi. E aiutarli a crescere"
di Gaia Parrini
La danza era il suo modo di esprimersi quando da bambina, per una dislessia ai tempi ancora non diagnosticata, faticava a parlare. Un modo di comunicare, parole e sentimenti, che l’ha portata a ballare ed esibirsi sui più importanti palchi del mondo, dalla Scala di Milano, l’Operà Garnier di Parigi, al Metropolitan di New York. E che , ormai dall’inizio, è parte viva e creatrice del Festival della Danza della città, e delle masterclass dedicate alle giovani allieve.
Sabrina, possiamo dire che lei ha visto nascere questo Festival?
"Sì, il primo anno ero stata invitata come ospite d’onore. Negli anni poi è cresciuto, con il numero di scuole, per cui è diventato un appuntamento importante. Le ragazze escono da qua con un bagaglio arricchito, ed è anche un modo per noi di confrontarci su sistemi educativi, perché le lezioni sono aperte a genitori ed insegnanti. Per questo bisogna ringraziare anche l’assessore Salemi, che ha deciso di puntare sulla cultura e sui giovani, che sono vogliosi di imparare".
Quanto è importante per loro un Festival come questo?
"Loro sono al primo posto. Sono i primi ballerini dei nostri progetti, tutti proiettati a far crescere un futuro, per loro. Noi lo facciamo nella danza, così come dovrebbe essere in tutti campi"
E la danza, quando si è così giovani, che ruolo ha?
"È una disciplina: ti focalizza sulle cose importanti. Perché già da piccoli si vede il lavoro su sé stessi e la determinazione per raggiungere un obiettivo. Diventa poi un modo di vivere anche tutto il resto, non solo la danza. Ci si focalizza sui difetti per migliorare, ma è anche una cosa bella, così come il movimento, la musica, le sensazioni, le espressioni e i sentimenti".
Da ballerina di grandi palchi ad insegnante, cambia il modo di approcciarsi alla danza?
"Molto, ho dovuto fare un grande lavoro. Sono tornata a studiare e mi sono innamorata dell’insegnamento: è la cosa che preferisco fare".
Più della ballerina?
"Sì, preferisco guardare e imparare, non farmi guardare. Amo insegnare perché è anche un lavoro sulle fragilità e la personalità. Lavorare con i piccoli, ad esempio, mi spinge ad entrare in quelle fragilità, a scoprire le loro personalità e la loro voglia di capire e sentire. Ho imparato a leggere l’atteggiamento del corpo e loro, in questo caso, sono un libro aperto. Io cerco di aiutarli anche psicologicamente per capire che si può sempre affrontare ogni difficoltà e migliorare. Nella danza classica, come nella vita".
La danza è cambiata?
"È cambiato l’approccio. I social, ad esempio, facilitano i ballerini, che sono forse più bravi adesso. Imparano più velocemente, e hanno una promozione più semplice. Io ho girato il mondo, da Parigi a San Francisco, per vedere e imparare dai primi “etoile“, per capire perché lo erano. Facevo tutti i ruoli, per farmi notare e diventare un personaggio".
E ce l’ha fatta...
"Sì, ma un po’ rimpiango di non aver avuto una carriera con l’arrivo dei social. Avrei fatto meno fatica".
Una pacca sulla spalla non se la dà?
"Sì, perché essendo dislessica, ho sofferto molto, e all’epoca, quando ho cominciato a danzare, non era così facile accettarlo, e comprenderlo".