Emanuele Palagi: "Il web non dimentica. Educhiamo i ragazzi all’uso dei social"

Dopo il caso del ragazzino che ha inviato foto violente nella chat di scuola. Faccia a faccia con lo psicoterapeuta: "Non basta dire ’mi raccomando’" .

Emanuele Palagi: "Il web non dimentica. Educhiamo i ragazzi all’uso dei social"

Emanuele Palagi: "Il web non dimentica. Educhiamo i ragazzi all’uso dei social"

di Daniele Mannocchi

VERSILIA

La storia del ragazzino versiliese, studente delle medie, che avrebbe diffuso video pedopornografici tra i compagni di classe, riporta sotto i riflettori il discorso mai del tutto chiuso del rapporto tra adolescenti, social e – novità, almeno per quel che riguarda la Versilia – intelligenza artificiale. I filmati, infatti, sarebbero stati realizzati proprio con l’Ai. "Se io ti dicessi che un bambino è montato sul motorino, non sapeva cos’era l’acceleratore e ha picchiato contro un palo, come reagiresti?". A lanciare la provocazione è Emanuele Palagi, psicologo e psicoterapeuta che da decenni lavora con il mondo dei giovani.

Dottore, ora abbiamo anche l’intelligenza artificiale con cui fare i conti?

"Ogni anno, la Sony organizza un concorso di fotografia. Non ricordo se nel ’22 o nel ’23, il vincitore in un primo momento ha rifiutato il premio perché lo scatto era realizzato con l’intelligenza artificiale. Questo ci aiuta a mettere in luce un problema oggettivo, e cioè la difficoltà a tracciare una linea tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Si tratta di una questione enorme, in un momento in cui stati, governi e pure gli esperti fanno fatica a star dietro agli sviluppi della tecnologia".

È qualcosa di gestibile?

"Bisogna premettere che l’adolescenza è una fase difficile: lo sviluppo del sistema nervoso, per quel che riguarda i lobi prefrontali, si chiude a 25 anni. I ragazzi ragionano sul ’qui e ora’, la rete no. Noi genitori dovremmo dare tre indicazioni: tutto quel che si pubblica sul virtuale diventa di dominio pubblico; quel che mettiamo in rete resterà lì per sempre; ciò che troviamo in rete richiede prudenza. Su queste basi, bisogna costruire un lavoro e un’educazione sul digitale: se diamo lo smartphone a un bambino, non basta dire ’mi raccomando’".

Si può educare alla tecnologia?

"Si deve. Noi adulti dobbiamo prenderci il carico delle responsabilità, rendendoci conto che non possiamo fare i genitori come hanno fatto i nostri bisnonni. Il mondo cambia e va capito".

Sono cambiati anche i giovani?

"Già nell’antico Egitto si parlava del decadimento dei giovani. Non è vero che i ragazzi di oggi sono peggio di quelli di prima: ogni generazione si trova di fronte a sfide nuove, e agli educatori è chiesto di adeguare le proprie strategie alle nuove sfide".

Tra cui il digitale...

"L’uso degli strumenti tecnologici va inserito tra gli obiettivi al pari dell’educazione sessuale. Ripeto: quel che entra in rete, ci rimane. E le aziende, per fare un esempio, seguono la tracia che noi lasciamo online per capire chi siamo oltre la risposta statica e manipolata del cv. Nel 2024, non si dovrebbe essere genitori inconsapevoli verso questi aspetti".

Il web è una realtà virtuale, parallela. Come si fa a controllare quel che succede?

"Quando andavi in giro a 14 anni, i tuoi genitori non sapevano quel che succedeva. Ma anche se non avevi i loro occhi puntati addosso, non andavi a rubare, perché ti avevano insegnato come muoverti nel mondo. La stessa cosa deve accadere online. Su questo tema c’è un discorso importante sulla disinibizione: sul web, si pensa meno agli effetti delle nostre azioni. Ma se insegniamo ai nostri figli il rispetto dell’altro, conteniamo i rischi che diventino cyberbulli. È cambiato lo scenario; il meccanismo educativo è il medesimo".

Insomma, bisogna imparare a gestire le nuove realtà senza demonizzare né loro, né i ragazzi.

"I giovani non sono perduti. Basta vedere quel che stanno facendo per la rivoluzione ambientale. E poi, visto che parliamo di nuove tecnologie: Facebook e Google sono stati inventati da due ragazzini. Dobbiamo guardare all’adolescenza con speranza, anche perché immaginare il futuro come una malattia non aiuta in primis proprio i nostri ragazzi. E bisogna conoscere i rischi: se dai un cellulare a un bimbo di otto anni cosa pretendi che succeda? E come farai, da adolescente, a dirgli che è uno strumento pericoloso, dopo che gli ha fatto da babysitter per tutta l’infanzia? Io sono dalla parte dei ragazzi, e per aiutarli dobbiamo essere i primi a conoscere i rischi a cui vanno incontro".