
Raghda e il marito Aytham, arrivato poco pià di un mese fa in Italia, con i loro tre bambini, hanno trovato accoglienza a Viareggio
Ha ancora vivida l’immagine delle macerie e della polvere che, in un attimo, ha avvolto l’aria e sommerso la sua casa, insieme alla famiglia e a tutto ciò che, insieme, hanno costruito. Ha ancora forte il ricordo di quel giorno negli occhi, nonostante tutto, speranzosi e sorridenti, Raghda, ragazza palestinese arrivata in Italia da Gaza, insieme ai suoi tre bambini, poco più di un anno fa, dopo il bombardamento della sua casa, che ha visto ferito anche il figlio minore con un trauma cranico poi curato all’ospedale Meyer, grazie all’impegno di Pcrf Italia e all’accoglienza di Sai Lucca, gestito da Arci. Un’accoglienza che li ha visti ospiti prima da una volontaria viareggina, poi a Bientina, all’interno del progetto Sai della Valdera, e tornare, all’incirca un mese fa, come da lei sperato e voluto, a Viareggio. Proprio quando, alla vista dello stesso mare è arrivato, ottenendo il ricongiungimento familiare, il marito Haytham. "Qua vedo gli sguardi e i sorrisi di benvenuto - racconta Raghda - Non capiscono la mia lingua, ma mi capiscono con lo sguardo. E, qua, mi sento in sicurezza".
Quella sicurezza eliminata e negata, là, nella loro terra, lontana ma, nonostante tutto, vicina, nel pensiero e anche nella volontà, di tornare, un giorno, e vederla rinascere per quello che era, "con l’umiltà e la semplicità che ci portiamo ancora dietro - dice Raghda, ricordando quelle stanze e quel cortile pieno, di voci, visi e parenti, costruite insieme - che, per me, rimane la memoria più bella". E il ricordo di una terra, ora, distrutta dalla fame e consumata da un genocidio, brutale, crudele, e messo in atto senza pietà. "Questa guerra è la più disastrosa e la più cattiva mai vista. Hanno rasato tutto, nemmeno gli alberi hanno lasciato, con l’intento di eliminare tutto e tutti - raccontano Raghda e Haytham - Tanti hanno perso i parenti, perché non si sa dove si trovano, e in altri casi le persone si riconoscono esclusivamente dai vestiti, perché alcuni sono morti da molto tempo. E c’è la fame, perché spesso chiudono, anche per due giorni, i centri del cibo, o lo danno solo a chi ha contatti con Israele: c’è chi, per mangiare, scioglie la pasta già sfatta o il mangime per animali dentro l’acqua, e chi, per placare il pianto dei bambini, unisce nel biberon acqua e sabbia. E, dall’altra parte, anche chi esce per cercare cibo vero per i propri cari, va, ma non sa se tornerà".
"C’è un’unica strada che porta al centro di rifornimento, che apre solitamente alle 2 e mezza di notte - racconta Haytham - Alle 2, un drone annuncia la quasi apertura, come un avvertimento per prepararsi correre. Una volta aperto, le persone cominciano a correre, calpestandosi per arrivare primi: chi ha più forza corre, e riesce magari a prendere un chilo di farina, ma se cadi, sei già morto. Ed è una zona, quella, dove sparano, e lo fanno come se fosse un gioco. È come essere in Squid Game". E in quella strada, tra la folla e sotto gli spari degli israeliani, alla ricerca di cibo per i due figli piccoli e la moglie, si è trovato Ahmed, il fratello di Raghda che, colpito da un cecchino, ha riportato ferite alla stomaco e alla testa ed è ora disteso in un letto d’ospedale. E nel cui sostegno, e per quello dell’intera famiglia, è stata aperta una raccolta fondi su GoFundMe, "un aiuto per tutta la famiglia - commenta Raghda - Per arrivare a loro senza che vadano a combattere per mangiare". Un gesto per garantire loro un pasto, per fornire le medicine necessarie, per far sentire loro, anche con una piccola donazione, la vicinanza di una città, e di un’umanità, che, ancora, esiste.
Gaia Parrini