Terrore in ditta, pestato perché chiede di essere regolarizzato: il caso Prato a Le Iene

Il programma tv torna a parlare di sfruttamento. In onda la conversazione tra una imprenditrice cinese e l’operaio pachistano

Un momento del servizio delle Iene, andato in onda venerdì sera

Un momento del servizio delle Iene, andato in onda venerdì sera

Prato, 5 dicembre 2021 - "Ora non posso fare contratto a 6 ore, devo cambiare il nome alla ditta". Il lavoratore pachistano incalza la titolare cinese e spiega di averne bisogno, di quel contratto, perché vorrebbe portare in Italia sua moglie e il figlio di pochi anni. "Se vuoi la famiglia è un problema tuo. Io adesso non posso, ho già 15 lavoratori che mi costano troppo". L’operaio mostra i lividi del pestaggio subito per aver chiesto di essere regolarizzato. "Se stai male prendi medicina, c’è tanto lavoro. Non puoi stare male".

È la conversazione andata in onda venerdì in prima serata in un servizio de Le Iene. Non è una conversazione qualunque, ma lo specchio del sistema malato che inquina ormai da oltre 20 anni il distretto tessile con l’infiltrazione di aziende guidate da imprenditori cinesi che si avvalgono di manodopera a basso prezzo, poco qualificata e facile da sfruttare. Una piaga contro la quale le istituzioni cittadine combattono unite ma con armi spuntate. Tanto che troppo spesso Prato finisce alla ribalta nazionale. È successo di nuovo la scorsa sera durante un lungo servizio della trasmissione Mediaset dal quale esce un condensato della brutta faccia del distretto, quello che il nostro giornale racconta da sempre. Un sottobosco di illegalità cavalcato dai Si Cobas che negli ultimi due anni hanno esacerbato il braccio di ferro tra lavoratori sfruttati e proprietari di aziende cinesi con picchetti di manifestanti che sono sfociati in scontri violenti finiti prima in ospedale e poi in tribunale.

Un momento del servizio delle Iene, andato in onda venerdì sera
Un momento del servizio delle Iene, andato in onda venerdì sera

È di pochi giorni fa la firma del Protocollo d’intesa in materia di prevenzione e contrasto dei fenomeni di sfruttamento lavorativo e di tutela delle vittime voluto dal Comune. Durante la presentazione al Pecci si sono alternati, quel giorno, gli interventi del procuratore capo Giuseppe Nicolosi - che ha puntato il dito contro l’ormai consolidata assenza ai tavoli istituzionali dell’imprenditoria e delle istituzioni cinesi a certificare la mancata collaborazione da parte degli orientali - del direttore del Dipartimento di Igiene e Prevenzione dell’Asl Renzo Berti e dell’assessore comunale all’immigrazione Simone Mangani. Il terreno dell’illegalità è impervio, difficile da penetrare e sempre pronto a rigenerarsi, favorito da fattori di rischio presenti in città. Per lavorare nelle confezioni è infatti sufficiente un basso livello di specializzazione e manodopera facile da reperire vista l’alta percentuale di stranieri in condizioni di bisogno (la Questura in un anno ha rinnovato 54.000 permessi di soggiorno). Qualcosa però nel frattempo è cambiato: adesso gli operai hanno iniziato a denunciare, ora che la manodopera impiegata non è solo cinese, ma anche africana e pachistana. "È cambiato l’atteggiamento, ora i lavoratori sono meno portati a farsi sfruttare", spiega Renzo Berti. Un cambio di passo aiutato dall’entrata in vigore nel 2016 della legge che ha riformulato la disciplina sul caporalato introducendo il reato di sfruttamento lavorativo e fornendo strumenti fondamentali per aggredire il fenomeno per via giudiziaria.

Un doppio binario che ha permesso - secondo i dati forniti dalla Procura di Prato - di aprire dal 2017 al 2020 59 procedimenti penali per il reato di sfruttamento lavorativo. Di questi, 27 sono stati archiviati, mentre 14 sono già stati definiti con sentenze e condanne. In 7 casi sono scattate misure cautelari personali e sequestri preventivi dei beni finalizzati alla confisca. Ma la strada per staccare la testa del dragone illegale è ancora molto lunghissima.