Trentacinque anni in sala parto "Oggi le donne conoscono la loro forza e il loro valore"

Il ginecologo Alessandro Errigo, ora in pensione, racconta una vita dedicata alla nascita. Il primo bambino vide la luce all’ospedale di San Marcello. Le corse a perdifiato dentro al Ceppo .

Trentacinque anni in sala parto  "Oggi le donne conoscono  la loro forza e il loro valore"
Trentacinque anni in sala parto "Oggi le donne conoscono la loro forza e il loro valore"

Lucia Agati

Il suo è l’incontro, quotidiano, da trentacinque anni, con la sacra e inviolabile intimità di una donna. Impossibile, per lui, non soffermarsi su un percorso così, oggi che quando cammina per la strada incontra donne che lo indicano ai loro bambini: "Vedi? E’ lui che ti ha fatto nascere!". E bambine viste nascere che scelgono lui per farsi seguire durante la gravidanza. "Mi sento un po’ nonno...", ammette, e alle spalle ci sono trentacinque anni bellissimi che gli hanno consentito di riflettere sulla straordinaria forza delle donne. Lui è Alessandro Errigo, ginecologo pistoiese, nato a Firenze il 3 novembre del 1954. La mamma Franca era insegnante, il babbo Antonio impiegato. E’ sposato con Camilla Reggiannini e babbo di Fiamma e Ada. Il cuore aperto, oggi, è il suo.

Li ha contati i bambini che ha fatto nascere?

"Ci ho provato. Ma non ci sono riuscito. Ma ritengo che che siano diverse migliaia".

Quando ha deciso di diventare ginecologo?

"Non sono nato con il fonendoscopio in mano e la scelta di iscrivermi a medicina e chirurgia è maturata alla fine delle superiori, la ginecologia invece è stata una scelta tardiva. L’ostetricia è la sintesi della medicina per me, ed è stato il mio primo afflato".

Cosa prova quando è in sala parto?

"In sala parto tante cose lavorano nell’anima e riaffiorano poi come acque carsiche. La gravidanza è ancora un mistero e la donna è un grande mistero per tutti. I medici maschi ne sono intimoriti. L’ostetricia quindi è, a sua volta, un grande mistero davanti alla donna che sta “fabbricando“ un bambino. E si ha paura di interferire in questo percorso. Poi la professione ti porta a superare questa fase".

Il primo parto se lo ricorda?

"Fu all’ospedale di San Marcello, era il settembre del 1988 dove avevo avuto un incarico a tempo determinato. Con me c’erano due ostetriche. Era una primipara e il travaglio durò una giornata intera. Il parto fu impegnativo, ma andò tutto bene. Non c’era il pediatra e io facevo anche la nursery".

Come si sente davanti alle criticità che possono verificarsi?

"Nelle situazioni di crisi riesco a “glaciarmi“ e questo mi consente di coordinare le scelte. Il primo cesareo, per esempio, l’ho fatto da solo. Cose impensabili oggi".

E davanti alle emozioni?

"Ci sono donne che non sapranno mai che ho pianto per loro di fronte a situazioni potenzialmente drammatiche e che mi sono potentemente emozionato per parti poi andati bene. Come quello di una notte di tanti anni fa, al Ceppo, anni Duemila, di fronte alla rottura dell’utero. Fu una cosa devastante. E allora il blocco operatorio era lontano...corremmo a rotta di collo. Ma andò tutto benissimo. Il tempo di riposarsi un attimo dopo il crollo dell’adrenalina e ci fu un’altra emergenza. E un’altra corsa, perchè la vita richiede velocità. Nacque una bimba".

Cos’era il Ceppo per lei?

"La sala parto del Ceppo era il cuore pulsante della città. Ogni tanto, e questa riflessione sul mio modo di essere medico che si occupa delle donne nasce dalla mia fragilità costituzionale, mi chiedo il perchè del grande affetto che ho intorno. E so che tanto deriva proprio dal lavoro che ho svolto nella sala parto del Ceppo".

Ha visto le donne cambiare in questi trentacinque anni?

"Trentacinque anni fa le donne erano meno consapevoli delle proprie potenzialità. Le donne sono forti e oggi invece conoscono l’entità della propria forza, del proprio valore e delle proprie possibilità".

Cosa significa per lei essere un medico?

"Mi sento coinvolto nelle vicende di chi ho davanti. Cerco di capire cosa sta succedendo e cosa posso fare. Essere medico è questo. Riconoscere il malato, oltre la malattia, quello che oggi si insegna a non fare. Altrimenti resta soltanto il protocollo, e non è così che deve essere".

E’ in pensione?

"Sì, svolgo ancora la libera professione e sono impegnato in un progetto nuovo di chirurgia ginecologica in convenzione che potrà essere a disposizione di tutti, e non soltanto di chi se lo può permettere".

Lei è un apprezzato fotografo. Ha mai pensato di raccontare la nascita?

"Raccontare il momento della nascita è difficilissimo. Si è difronte a una trinità: madre, padre e bambino, in cui si ha pudore a entrare con una macchina fotografica".

Ha un progetto fotografico?

"Sì. Portare i musicisti in sedi inusuali per loro. E’ il lato meno convenzionale delle persone l’aspetto che mi coinvolge di più in fotografia, quello meno consueto, di cui l’altro è meno consapevole".