Pistoia, 4 agosto 2025 – Sono quattro le missioni nel 2025 della Cross, la Centrale remota operazioni soccorso sanitario con sede a Pistoia. Sette da quando è entrato in carica il coordinatore Andrea Nicolini. Destinazione principale la Striscia di Gaza. Bambini, feriti, malati, malnutriti. “Ogni missione richiede giorni per essere organizzata – dichiara Nicolini–. Ci siamo occupati di pazienti pediatrici da Gaza - ammette -. Nelle prime missioni arrivavamo in Egitto, i bimbi erano accolti al Cairo e noi pensavamo al trasferimento. Nelle ultime tre, chiuso il valico di confine, i pazienti sono stati fatti uscire dalle autorità israeliane e accompagnati all’aeroporto di Eliat. I primi pazienti erano oncologici, poi si è passati rapidamente alle vittime di traumi”.

Felice Prudentino, 39enne pugliese di Ostuni, professione operatore tecnico di funzione sanitaria, in servizio alla Cross da quattro anni.
Ci racconta la missione?
«Nel marzo scorso abbiamo preso un carico otto bambini palestinesi, dall’ospedale Umberto I del Cairo, struttura gestita in maniera fantastica dalle suore - fino all’Italia. Mi sono occupato del supporto all’assessment team, dall’accoglienza all’arrivo. Un’esperienza professionale importante, ma anche molto toccante a livello umano».
Cosa le è rimasto dentro?
«Metti a fuoco quali sono i veri problemi della vita, le vere necessità. Dall’aeroporto di Pratica di Mare ho accompagnato personalmente al Meyer due pazienti, un bimbo di otto anni e una bimba di quattro. Nel viaggio, con calma e tatto, ho avuto modo di stabilire un contatto. Io ho due figli piccoli, l’immedesimazione è stata forte».
Prego, continui.
«Questi bambini hanno perso il diritto alle cure dalla sera alla mattina: niente medicine, niente ospedali. E i nuclei familiari che, già minati dai lutti, si devono dividere per provare a dar loro un futuro, perché sono le autorità israeliane a decidere chi può uscire. Bambini che con estrema naturalezza raccontano delle bombe, della propria scuola crollata, della routine giornaliera della fuga, dei morti. Si assiste alla normalizzazione della morte».
Da chi erano accompagnati?
«Entrambi dalla mamma. Ricordo lo sguardo di queste mamme, impaurito, diffidente, senza luce. Sanno che non torneranno mai nella propria terra. E dietro si portano un minuscolo bagaglio dove dentro c’è quel che resta di una vita intera».
Un aneddoto che l’ha colpita?
«Quando eravamo sull’aeromobile abbiamo dato da mangiare a tutti. il bambino di quattro anni ha razionato tutto, sia l’acqua che il cibo. “Lo tengo per i prossimi giorni“, ci ha detto. Abbiamo provato a spiegargli che non c’era bisogno perché nelle ore successive avrebbe ricevuto altro cibo, ma non è facile perché hanno sempre vissuto nella privazione totale».
Un bello schiaffo.
«Serve prepararsi mentalmente, non siamo pronti a tutto questo. È devastante, intollerabile. Ma bisogna rimanere lucidi. Grazie a questa struttura e a tutte quelle che collaborano, siamo fieri di esserne parte integrante. Per i pochi che riusciamo a portare via, si tratta di un’azione risolutiva».
Andrea Biagini, 45enne pistoiese di Pescia, professione infermiere, in servizio da dieci anni alla Cross e al coordinamento maxi emergenze.
Già due missioni all’attivo...
«Si, la prima a febbraio e la seconda a maggio, ma ho partecipato anche alle altre come operatore in centrale. Ma si tratta di un lavoro di squadra».
Analogie e differenze?
«Due missioni simili ma diverse. Nella prima, io e un medico del 118 di Pistoia siamo arrivati prima del resto della squadra per effettuare delle operazioni preliminari sul posto: valutare il quadro clinico dei pazienti, stabilizzarli e prepararli al trasporto. La seconda invece è stata più veloce».
Cosa ha provato?
«Difficile spiegarlo, tocchi con mano cose che vedi solo in tv. Negli occhi delle persone vedi la gravità di quanto sta accadendo, sollievo, ma anche tanta rassegnazione. Vanno dall’altra parte del mondo lasciando parte dei familiari, almeno quelli ancora vivi. E sanno che forse torneranno mai a casa».
Ammesso che una casa ancora ci sia...
«Esatto. Ci fanno vedere video registrati di persona, con le loro case distrutte dalle bombe, magari con alcuni parenti rimasti sotto le macerie».
Come si trovano le parole da dire in queste situazioni?
«Cerchiamo di rassicurarli, ma è difficile. L’assistenza sanitaria è una cosa, quella psicologica tutt’altro. Dei bambini stupisce lo spirito di adattamento, sembra che non li spaventi ormai nulla. Salgono su un aereo militare con persone che non conoscono, senza fare un fiato, con ferite da arma da fuoco, arti amputati, ustioni, problemi agli occhi a causa di schegge e detriti. Ma anche patologie tumorali che necessiterebbero di una certa assistenza e invece sono dilagate, trasformandosi in condizioni complesse. Ma nonostante tutto hanno voglia di parlare, di raccontare. Inevitabile affezionarsi in subito, alcuni ti rimangono nel cuore».
Un esempio?
«Una bimba con una linfoadenopatia tumorale in stato molto avanzato perché non trattata - gli si illuminano gli occhi mostrandoci delle foto, ndr -. È stata operata e ora sta bene».
Partirebbe di nuovo?
«Certo, sono momenti di crescita professionale e personale. Stai facendo pochissimo, però è un qualcosa che può cambiare i destini di una vita».