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Neri Tanfucio, una impertinente pisanità

Cento anni fa moriva Renato Fucini. Con i suoi sonetti in vernacolo rivoluzionò la letteratura dell’Ottocento. A lui è dedicato il "Capodanno"

di Lorenzo Gremigni*

PISA

Per i pisani "Renato Fucini" si legge "Neri Tanfucio". E la mente va subito agli scoppiettanti sonetti in vernacolo che lo resero celebre nel lontano 1872 (quando, neanche trentenne, si trovava a Firenze), a quelle "uscite" geniali che in pochi tratti descrivono, secondo una fortunata espressione di Tristano Bolelli, il "carattere di una città". Troviamo ad esempio il ritratto dei pisani che "’un c’enno adatti ad andà per er mondo a strapazzassi", o del loro protettore San Ranieri il quale "levato ‘ver viziaccio di rubbare … è un gran santo di ve’ boni".

Con quei sonetti impertinenti, Fucini non solo smosse le acque della sonnacchiosa letteratura borghese del suo tempo, di cui divenne ben presto un idolo incontrastato, ma fondò ufficialmente la letteratura vernacola pisana, regalando a Pisa una ragione in più di celebrità, la lingua del suo popolo, ben presto conosciuta e apprezzata in ogni angolo d’Italia. Proprio nella nostra città Fucini "visse da goliardo la sua pisanità elevando a letteratura la voce del popolo", come è ben scritto nella lapide apposta sulla facciata della casa in Via Giordano Bruno (allora Via Cariola) che abitò nel 1859, da studente in Agraria appena sedicenne insieme al cugino Davide Cei di Calci. Qui si immerse nella scanzonata baraonda degli studenti e trascorse i più begli anni della sua vita, come scrive egli stesso nelle sue memorie pubblicate postume, "Foglie al vento". Qualche anno dopo, a Firenze, rimembrando i suoi trascorsi universitari inventò i celebri sonetti, in un pisano un po’ approssimativo e fantasioso ma insuperabili nella descrizione di figure, scenette, sensazioni. Ma la capacità descrittiva e la sensibilità artistica dello scrittore si esprimono in modo più compiuto nei suoi capolavori in prosa: "Le veglie di Neri" e "All’aria aperta", in cui vera protagonista è la campagna toscana col suo paesaggio, i suoi animali e le sue persone, parte integrante di un quadro quasi macchiaiolo. La tavolozza del Fucini è variopinta: ad immagini struggenti e quasi drammatiche (come dimenticare "Il matto delle giuncaie") si accompagnano quadretti di rara efficacia comica ("La scampagnata"): icone di un’epoca elevate ben presto a paradigmi letterari di un verismo toscano che aveva in Fucini il suo primo cantore.

E’ trascorso esattamente un secolo da quel 25 febbraio 1921 in cui, a Empoli, il quasi ottuagenario Renato Fucini chiudeva gli occhi per sempre. Nato a Monterotondo nella Maremma nel 1843 da un padre medico e patriota, durante la vita Fucini peregrinò per tutta la Toscana (Pisa, Firenze, Vinci, Pistoia, Empoli, Castiglioncello) dedicando il suo fervido ingegno ai mestieri più vari: aiuto ingegnere, scrittore, poeta, ispettore scolastico, bibliotecario… Quest’anno la Regione Toscana dedica a Renato Fucini il Capodanno Pisano 2022 per aver conferito dignità letteraria al vernacolo pisano ed aver valorizzato nei suoi racconti il fascino della campagna toscana. Cosa ne penserebbe quell’impenitente burlone del nostro Fucini? La risposta ce l’ha lasciata nel sonetto Er Centinario: "Te crepi, oggi, d’un córpo ‘nder cervello Doppo cent’anni nun ti fanno niente… Er centinario tuo sarebbe ‘vello".

* Avvocato

e cultore di pisanità