
Stücken, il dramma degli Imi I soldati deportati in Germania e trasformati in pezzi da lavoro
di Simonetta Simonetti
Nella memorialistica si ripete di frequente l’accusa dei deportati nei confronti degli alti Comandi, alimentata dalla consapevolezza di un tradimento e di un abbandono, costituito dalla assoluta mancanza di direttive, agli attacchi tedeschi: dalle ricerche risulta perfino che non pochi soldati erano stati consegnati ai tedeschi dai loro comandanti, magari in cambio della salvezza personale. E’ superfluo descrivere il disorientamento creato da queste situazioni, aggravato dalla presa d’atto di andare incontro a un destino terribile nell’esperienza della deportazione attraverso gli interminabili viaggi nei vagoni piombati in condizioni disastrose o anche solo nella brutalità delle azioni di disarmo da parte degli ex alleati. Contrariamente a ciò che ci si poteva attendere, tuttavia, la grande maggioranza degli internati optò per la fedeltà alle “stellette” piuttosto che farsi catturare dalle lusinghe di Hitler e Mussolini.
Al momento dell’annuncio dell’armistizio, alle ore 18,30 dell’8 settembre diramato da Radio Algeri su ordine del generale Eisenhower, il capo di Stato maggiore operativo del Comando supremo della Wehrmacht e lo stesso Führer non si fecero cogliere impreparati, poiché da almeno due settimane era stato disposto nei dettagli quale comportamento avrebbero dovuto tenere i comandanti delle unità dislocate nei diversi teatri di guerra: l’imperativo era di disarmare più rapidamente possibile le Forze armate italiane informandole che per loro la guerra era finita, come di fatto avvenne. La Memoria OP 44 (memoria Roatta) arrivò alle formazioni dislocate sui fronti esteri solo l’otto settembre mentre a quelle territoriali era pervenuta tra il due e il cinque dello stesso mese. Documento generico, impreciso, fumoso nel contenuto non dava precise indicazioni ma accennava ad un’eventuale resistenza verso “forze non nazionali”. Ne derivò solo una smisurata confusione, allarmismo, senso di precarietà e mille interrogativi ai quali i comandanti delle varie divisioni si trovarono impreparati. Resistere ai tedeschi che pretendevano con modi minacciosi la consegna delle armi o combattere? L’indecisione e la confusione furono elementi comuni alla maggior parte delle varie Divisioni, quel subdolo messaggio attendista non aiutava affatto a prendere decisioni. Lo sbandamento delle truppe ne fu l’immediata conseguenza. Dopo una prima, brevissima, illusione che la guerra fosse finita e il “Tutti a casa” una conseguenza, si ebbero solo episodi di scoordinati movimenti, le truppe abbandonate a se stesse, mancanza di ordini precisi, resistere, combattere o fuggire per salvarsi la vita? Il sacrificio della Divisione Aqui pagò l’enorme prezzo di innumerevoli vite ma per gli altri il destino fu presto una realtà: prigionieri. Ma certamente l’impreparazione non riguardava i Comandi tedeschi che avevano anche predisposto le misure necessarie alla cattura di questa ingente massa di soldati al punto che già il 9 settembre si orientavano a impiegarla come manodopera. Già nel luglio 1943, infatti, Heinrich Himmler aveva elaborato un piano che prevedeva, in un primo tempo di far disarmare con l’inganno gli italiani, per deportarli in seguito al servizio dell’industria degli armamenti tedesca.
Il 20 settembre Hitler ordinò che gli italiani catturati non dovevano essere considerati prigionieri di guerra (Kriegsgefangenen), ma internati militari (Militär-Internierten), le conseguenze di tale denominazione: gli internati militari non erano tutelati dagli accordi internazionali sui prigionieri di guerra e potevano essere utilizzati come massa di schiavi al servizio del Terzo Reich.
Oltre 650.000 soldati del Re, fuggiasco, vennero presi prigionieri, tradotti su carri bestiame e portati nei lager nazisti dove, privati di dignità, dovettero sopportare per lungo tempo, sacrifici, umiliazioni e condizioni di vita insostenibili. Il trattamento dei soldati italiani disarmati si attuava in due modi: trattenere (festhalten) i volenterosi che si consegnavano spontaneamente e togliere di mezzo (ausschalten) tutti gli altri. Le azioni sistematiche a carico dei soldati italiani al momento della cattura da parte delle unità tedesche furono costituite da pesanti intimidazioni e da manovre diversive attuate allo scopo di ingannare le vittime sulle reali intenzioni dei loro autori; esse tuttavia si resero chiare quando in modo generalizzato cominciarono ad attuarsi razzie a carico dei militari italiani già nella fase del trasporto ai campi di concentramento. Ricorrente fu infine la separazione tra ufficiali e soldati semplici. Non più soldati, solo Stücken, pezzi da lavoro, insultati e umiliati. La loro liberazione avvenne solo all’inizio di maggio 1945, il ritorno a casa fu lungo e difficoltoso come si legge nei loro scritti occultati per troppo tempo e difficile fu anche il loro reinserimento nella famiglia e nella comunità. Nessuno aveva voglia o piacere di sentire quello che avevano passato, il perché della loro lontananza, nessuno, al loro arrivo, sventolò bandiera né organizzò cerimonie di benvenuto. Solo tardivamente lo Stato italiano ne riconobbe il merito e la loro Resistenza come contributo fondamentale per la liberazione. Il loro “NO” alle continue e pressanti richieste di adesione alla repubblica Sociale e alla Germania nazista fu un coro unanime e un grande esempio di coesione. “Non muoio neanche si mi ammazzano”, in questa frase di Giovannino Guareschi la loro storia.