
A 28 anni dalla scomparsa
del grande Cesare Viviani, poeta, scrittore e nostro collaboratore, pubblichiamo un bel ricordo dell’amico Massimo Di Grazia
Era il 28 maggio del 1973, quando varcai per la prima volta il portone di Palazzo Orsetti per il mio primo giorno di lavoro al Comune di Lucca. Insieme a me c’era un’ altra persona che allora non conoscevo; mi disse di chiamarsi Cesare Viviani, Cesarino per gli amici. Particolare curioso, quel giorno era anche il mio compleanno e l’anniversario del suo matrimonio. Fummo ricevuti entrambi dall’allora sindaco Mauro Favilla che ci comunicò quale sarebbe stato il nostro compito; impiantare da zero gli uffici pubbliche relazioni e stampa e partecipazione.
Il nostro assessore di riferimento era Pietro Mandoli. Ci mettemmo al lavoro con l’entusiasmo dei neofiti e nel giro di un anno riuscimmo a far arrivare nelle famiglie dei residenti lucchesi i primi numeri del nuovo Notiziario Comunale, ad impiantare nove consigli di circoscrizione, ognuno in rappresentanza delle zone in cui era stato suddiviso il territorio comunale, a rilanciare gli scambi giovani con le città gemelle europee. Furono anni di notevole impegno, ma si operava in piena concordia, e il lavoro non ci pesava. Con Cesarino non ebbi mai contrasti, eravamo sempre sulla stessa lunghezza d’onda, benché provenissimo da ambiti ed esperienze diverse. L’unica cosa che ci divideva era il tifo calcistico, lui Juventino doc, io fervente milanista.
Oltre che colleghi, diventammo anche amici, conobbi la moglie e i suoi due figli e alcune volte fui suo ospite nella sua bella casa di Monte S Quirico. Tutti gli anni di settembre mi invitava a vendemmiare nella vigna che possedeva vicino a casa. Quando iniziò a scrivere il suo famoso libro vernacolo “Robba della mi’ terra”, mi dedicò una delle prime poesie, “il mio amio Joi detto il prey boy”, in cui enfatizzava ironicamente alcune mie caratteristiche, prendendomi bonariamente in giro. Quando la cosa fu conosciuta in Comune, le battute e le risatine dei colleghi erano all’ordine del giorno, ma la cosa non mi dispiaceva, anzi.
Il libro, stampato dall’editrice Maria Pacini Fazzi ebbe un grande successo, tanto che ne seguì un secondo, “Robba dell’altro mondo” una interpretazione in dialetto lucchese dell’Inferno Dantesco, e poi la commedia sempre in vernacolo “Ir troppo stroppia”. Cesarino a Lucca era ormai conosciutissimo, purtroppo però i problemi cardiaci di cui aveva sempre sofferto fino dalla prima giovinezza si andavano sempre più aggravando, tanto che fu costretto ad accettare il trasferimento alla biblioteca dell’orto botanico, dove non c’erano scale da salire come a Palazzo Orsetti. Poi, in attesa di un trapianto di cuore cui aveva fatto richiesta, ma che non arrivò mai, dovette lasciare il lavoro. Io però continuai ad andarlo a trovare periodicamente.
Il giorno di S. Stefano del 1992, mi ricevette nella sua camera da letto; era notevolmente peggiorato, e quando lo salutai, dentro di me ebbi la sensazione che non lo avrei più rivisto. Infatti fu così e il 2 febbraio successivo Cesarino se ne andò. Per quanto mi riguarda è stato la persona umanamente più degna di nota che ho incontrato nei mie 35 anni di vita in Comune di Lucca, e il suo ricordo vivrà sempre in tutti coloro, e sono tantissimi, che gli hanno voluto bene.
Massimo Di Grazia