Pieno centro, nel cuore della città. Proprio di fronte ad uno dei locali più amati e antichi di Spezia c’è il portoncino da cui si accede alla sua casa-studio. Più atelier che dimora, perché, come ci dice quando entriamo, "i quadri ormai mi hanno sfrattato". Una rampa di scale, un pianerottolo elegante ed ecco che ci accoglie nella sala-cucina piena di tele grezze, libri, statuine, soprammobili – tutti personaggi del suo firmamento ideale – con le pareti che straripano di poster, articoli di giornale, illustrazioni, quadri. Ovviamente, su tutti, sono ben rappresentate le sue icone: Lilli Carati, James Ellroy, i Ramones. Capisaldi per Manuel Cossu, classe 1976, fucina di disegni e pitture che hanno conquistato Spezia, l’Italia e diverse mete oltreconfine.
Perché queste icone?
"Vanno fuori dall’arte, sono i tre punti fermi della mia vita, personaggi preferiti e ispirazione. Prima ci sono stati i Ramones ed Ellroy, poi è arrivata Lilli, in un periodo in cui ero refrattario a tutto e ha catturato la mia attenzione. I Ramones sono il mio gruppo preferito, musica troppo rock per il punk e troppo punk per il rock, facce serie su canzoni allegre; non hanno mai sfondato a livello di vendite e dovevano fare 300 concerti all’anno per sopravvivere, erano pieni di difetti, ma erano i migliori, erano crudi, veri".
Ha detto che l’ispirazione è anche nella vita. Come?
"Soprattutto, avere una disciplina, se penso a loro. Ellroy non era equipaggiato: alcolizzato, ex galeotto, aveva subito il trauma della mamma assassinata, dormiva sulle panchine:. Pensare a lui, nel momento in cui ti vengono gli istinti scemi da ragazzetto, mi ha bloccato. È un idolo positivo. Inoltre, la penso come Johnny Ramone".
Cioè?
"Ha sempre detto che non c’è niente di male ad attingere alla stessa fontana, così sono io, nell’arte e nella musica. Non ho mai spaziato tanto, non ho curiosità particolari, non mi fa piacere viaggiare – anche se per le mostre o il gruppo devo farlo –, né tantomeno andare in vacanza. L’unica che ha senso è quella in un posto che non ti piace, che ti fa tornare a casa contento di rientrare".
E Lilli Carati?
"A parte la bellezza oggettiva, mi è piaciuta la sua storia: ho visto un documentario, ’Una vita da eroina’, mentre registravo un disco a Roma e mi ha fulminato. Avevo letto qualcosa su di lei e la uso in quello che realizzo come ambasciatrice, molto aggraziata, per esprimere ciò che penso".
Pittore, ma anche musicista, nello specifico batterista: suona nei leggendari Manges, caposaldo del punk rock spezzino e non solo, e anche nei Dangerous Chickens.
"I Manges sono come fratelli. Non ho sviluppato una vera passione per lo strumento, ma non potrei mai lasciarli. La batteria l’ho scelta perché mi sembrava facile ed era nelle mie corde. Grazie a lei, i miei hanno iniziato a prendermi sul serio. Certo, senza arte e musica non potrei stare: l’arte è il progetto che ho preso più seriamente, la cosa più importante della mia vita".
Ha amici artisti?
"Non vado alle mostre, ma sono molto stretto con alcuni di loro: Lorenzo D’Anteo, che è stato mio maestro, Roberto Pelosi, Jacopo Benassi e Giuseppe Gusinu".
Che vita fa in città?
"A Spezia ci sono nato, ma non mi sento completamente spezzino, anche perché non ho un cognome di qui e spesso me l’hanno fatto notare. Non sono mai stato attento alla spezzinità, ma mi piace quando ne parlano. Qui mi sono formato, dopo aver vissuto 13 anni a Romito, ma sono refrattario agli ambienti e non mi piace il mare. Per me la città è via Crispi, con la Skaletta, e un’altra istituzione è la curva dello Spezia, quella anni Ottanta. Io tifo Atalanta e finché le Aquile non sono salite in A, sono andato anche io allo stadio, poi ho smesso per rispetto dei veri tifosi. Inoltre, sono affezionato a Bocca di Magra, dove ho passato estati serene e ho tanti amici".
Ha tanti tatuaggi. Come mai?
"Li aveva Dee Dee (Ramone, ndr.) e sono un omaggio a lui. E poi, un amico che purtroppo non c’è più, si era tatuato in galera una Madonna sulla coscia: anatomicamente era un disastro, ma aveva una forza incredibile, considerato anche i pochi mezzi. Mi ha decisamente ispirato. Prima erano un modo per prendere la distanza da qualcosa; ora, invece, sono un mezzo per integrarsi. In un modo o nell’altro, io non giudico: ognuno vive il suo tempo ed è puro a suo modo".
Non utilizza i social, ma una sua frase di commento al film ’Io capitano’ è stata postata da altri. Parole molto profonde...
"In questo paese, spostare l’attenzione su chi ci invade sembra la cosa più facile del mondo, ma la massaia magari non si accorge che la vita sarebbe dura anche senza di loro. È stata scatenata una guerra fra poveri, sfruttando il razzismo insito nell’uomo, che in generale ha paura del diverso. Da una parte non va bene il buonismo facile, ma serve un buonsenso che non è né di destra né di sinistra: si può aver anche una mentalità chiusa, ma se c’è un barcone in mezzo al mare con bambini e donne, non lo abbandoni. Si tratta di esseri umani, persone. Poi, una volta che li hai salvati, allora penserai alla burocrazia e a tutte le altre questioni".
Lo ha messo anche nelle sue opere.
"Sì. C’è una similitudine fra il migrante e lo squalo: entrambi vengono dal mare, sono tosti, ma preceduti da pessima pubblicità. A parte casi estremi, bisogna capire che siamo fortunati e ho anche conosciuto alcune persone in arrivo dall’Africa che hanno svoltato: c’era un ragazzo che chiedeva l’elemosina sotto casa e ora lavora nei cantieri. E poi, anche noi a Marcinelle, eravamo in cerca di fortune migliori. La fame è un linguaggio universale, va capita".
Cambiando discorso, davvero non ha mai avuto uno smartphone?
"È così. Non mi è mai piaciuta la tecnologia: che siano telefoni, pc, calcolatrici, non importa. Non mi sento tagliato per queste cose e non mi è mai piaciuto applicarmi. Però non ne butto via uno di quelli vecchi (ce li mostra tirandoli fuori da un cassetto, ndr.)".
Qui nella sua casa-studio è pieno dei suoi idoli e riferimenti. Tutti questi Topolini, ad esempio, cosa vogliono dire per lei?
"Quando ero piccolo, aspettavo mio padre che lavorava in uno studio radiologico e durante l’attesa, leggevo le riviste che riportavano casi di cronaca: il treno che prendeva fuoco, il mostro di Firenze, il caso Benzi, i gemelli siamesi. Mi portavo tutto ciò a casa. Topolino è l’oasi in cui non succede niente di pericoloso, il mezzo con cui ho addolcito questi fatti terribili. Mi hanno criticato, ma per me usarlo è come togliere orrore alle cose che mi hanno colpito da ragazzo, come fece De André con Marinella. Si addolciscono certe morti, insomma".
E la Madonna sulla mensola? Lei crede?
"La Madonna mi piace per mille motivi: oltre alla storia del mio amico galeotto, mi ispira graficamente e guardo affascinato chi si affida a poteri superiori. Riguardo alla fede, cito il libro di Don DeLillo: "Io credo in tutto (che equivale a credere in niente)’".