
Tutto pronto per l’importante rassegna internazionale in piazza Europa. La direzione di Lorenzo Cimino: "Questa è l’edizione della connessione. Artisti e ascoltatori sono parte di un dialogo che va oltre la musica".
Un programma incredibile quello della 57ª edizione del Festival internazionale del Jazz della Spezia, che parte il 13 luglio con Marcus Miller, prosegue poi il 14 con Danilo Pérez, John Patitucci e Adam Cruz Trio e ancora il 15 con la band di Ian Anderson (dei Jehtro Tull), il 18 il John Scofield’s Long Days Quartet, il 19 Fabio Concato & I Musici In Concerto, il 20 gli Incognito e infine, il 25 luglio, Stewart Copeland dei Police. Tutti in piazza Europa, tranne la seconda tappa in piazza Mentana, nella kermesse con l’organizzazione alla Società dei Concerti e la direzione artistica dello spezzino Lorenzo Cimino.
Questa edizione presenta nomi di altissimo profilo. Qual è stato il filo conduttore che ha guidato le sue scelte?
"Tracciare un ponte tra le radici profonde del jazz e le sue contaminazioni contemporanee, attraversando mondi musicali affini. Da Marcus Miller, orgoglio del jazz-funk, a Stewart Copeland, che con la sua esperienza rock e world music apre orizzonti inediti, fino ai Jethro Tull, che incarnano la sperimentazione progressive: insieme formano un percorso curatoriale che celebra la versatilità del jazz, la sua capacità di rigenerarsi e dialogare con generi diversi. Una proposta unitaria, in cui il rispetto per la tradizione convive con uno sguardo aperto alle frontiere del suono".
In che modo la città della Spezia entra in dialogo col festival? Cosa restituisce il territorio alla musica e viceversa?
"La Spezia non è solo lo sfondo del festival, ma parte integrante del suo racconto, creando un dialogo diretto tra musica, paesaggio e comunità. Il territorio restituisce ispirazione, bellezza e identità; il Festival, in cambio, porta fermento culturale, apertura internazionale e senso di appartenenza".
Il festival unisce artisti jazz puri e contaminazioni con altri linguaggi musicali. C’è un messaggio dietro questa apertura di confini?
"Sì, ed è chiaro: il jazz è una lingua viva, in continua evoluzione. Aprirsi ad altri linguaggi come il funk, il progressive o la musica orchestrale significa riconoscere che il jazz ha sempre dialogato con il mondo, senza perdere la propria identità. Vogliamo raccontare una musica curiosa, inclusiva e capace di abbattere barriere, parlando a un pubblico ampio e trasversale, senza rinunciare alla qualità".
John Scofield, Danilo Pérez, Patitucci, ma anche gli Incognito e Concato: si percepisce una ricerca di equilibrio tra sperimentazione e popolarità. Quanto è importante, oggi, creare un festival accessibile ma non semplificato?
"È fondamentale. Un festival deve essere accessibile, ma senza rinunciare alla profondità artistica. L’equilibrio tra sperimentazione e popolarità ci permette di coinvolgere pubblici diversi, offrendo esperienze musicali di qualità che siano al tempo stesso stimolanti e accoglienti. Non si tratta di semplificare, ma di aprire porte: far dialogare l’eccellenza jazzistica con linguaggi più immediati crea ponti, non compromessi".
Il jazz è spesso considerato un linguaggio elitario. In questi sei anni di direzione, come ha lavorato per mantenerlo vivo, contemporaneo, e vicino anche a un pubblico nuovo?
"Ho cercato di riportare il jazz al suo spirito originario: una musica libera, inclusiva, capace di raccontare il presente. Attraverso scelte artistiche che uniscono tradizione e innovazione, collaborazioni trasversali, e un’attenzione costante alla qualità, abbiamo costruito un festival che parla pure a chi si avvicina per la prima volta. Il jazz è uno spazio aperto, e il nostro compito è renderlo accessibile senza snaturarlo".
Stewart Copeland con ‘Police Deranged for Orchestra’ chiuderà il festival: una sintesi potente di musica popolare e ricerca sinfonica. Come si inserisce nella visione complessiva della rassegna?
"Nel 1987 Sting suonò i brani dei Police a Umbria Jazz insieme all’orchestra di Gil?Evans, in una serata indimenticabile, che cerchiamo di far rivivere oggi. È stato un momento emblematico di contaminazione tra rock, jazz e scrittura orchestrale, un modello perfetto della nostra visione artistica".
Lei è anche musicista, non solo curatore. Quanto il suo sguardo influisce sulle scelte programmatiche?
"Essere musicista mi aiuta ad ascoltare con maggiore profondità, a capire cosa ci sia dietro ogni nota e ogni progetto. Il mio sguardo artistico influisce inevitabilmente sulle scelte: cerco autenticità, visione, coraggio. Ma cerco anche equilibrio e dialogo. Non programmo pensando solo a me stesso, ma con la responsabilità di offrire al pubblico un’esperienza ricca, stimolante e viva".
C’è un artista che ha voluto fortemente?
"Marcus Miller. Fin dall’inizio, ho sentito che la sua presenza avrebbe portato non solo virtuosismo e groove, ma anche una forza comunicativa unica, capace di connettere con ogni tipo di pubblico. È un artista che incarna perfettamente il nostro ideale di jazz contemporaneo, capace di mescolare tradizione, sperimentazione, profondità e immediatezza".
Se potesse descrivere l’anima di questa edizione in una sola parola, quale sarebbe?
"Connessione. Perché questa edizione unisce generazioni, linguaggi musicali e culture diverse. Ogni artista, ogni palco, ogni ascoltatore è parte di un dialogo vivo, che va oltre i confini del jazz per abbracciare una comunità più ampia. La musica diventa un ponte, e il festival il luogo dove quel ponte prende vita".