Le fibre killer iniziarono la loro azione fantasma tra il 1957 e il 1959 quando il dipendente dell’Arsenale lavorava a bordo delle navi in manutenzione nei bacini. L’esposizione continuò fra il 1960 e il 1965, prima di entrare in servizio in vari uffici del Comando in capo e del Museo Navale. Lì nessuna insidia. Ma ormai il destino era segnato. E’ emerso col decesso e dall’ennesimo processo, davanti al giudice del lavoro, sulle vittime dell’amianto. A promuoverlo, le figlie del defunto, patrocinate dall’avvocato Roberto Quber, con l’assist dall’associazione dei Familiari degli Esposti all’Amianto. E’ stato il presidente Pietro Serarcangeli a mettere in contatto il legale col dottor Omero Negrisolo, consulente della Procura Generale della Repubblica di Venezia nel processo ad alcuni ammiragli. Negrisolo, autorizzato, ha consegnato copia di importanti documenti al legale che lo ha citato come teste. È così riemerso che le navi militari in passato fossero imbottite di materiale contenente amianto (95 tonnellate furono stoccate in un magazzino di Marinarsen); coibentazioni e scoibentazioni avvenivano senza misure di sicurezza: nessun aspiratore, nessuna mascherina. La Marina ignorava il problema. Il 29 settembre 1986, il direttore dell’Arsenale informò gli enti superiori che le maestranze rifiutavano di lavorare l’amianto perché pericoloso. Il giudice del Lavoro Marco Viani ha condannato il Ministero della Difesa a risarcire 44mila euro a ciascuna delle due eredi ricorrenti per le sofferenze patite in vita dal padre durante la malattia. A Genova il processo per il danno esistenziale ai congiunti.
CronacaMorì arsenalotto, eredi ristorati Un teste chiave nel processo