
Maestro del riuso in campo artistico: "Una scelta estetica, etica e anche simbolica". La riflessione concettuale vince sul gesto: "Se è nobile, dà valore anche alle azioni".
Gli occhi brillano di una luce incantevole e meravigliata. L’età, il caldo, la fatica, non sente nulla Cosimo Cimino. Il suo studio d’artista che ci accoglie, brulica di opere che spasimano ossigeno. Vogliono liberare appieno la loro bellezza che traspare comunque e ha un anomalo vigore, incrociando diversi linguaggi e sapori. La potenza dell’ironia le avvolge, una forza artistica che traspare violentemente nel mare di un insieme di oggetti, vivi grazie anche a un’intelligente manipolazione del riuso, a tratti ‘spruzzata’ di poesia visiva. Un albero con una corteccia di carta arrotolata, i paesaggi sfolgoranti di piccoli segmenti di lattine che una trattoria gli conserva, perché Cimino non potrebbe mai bere così tanta birra. Formato all’istituto d’arte di Palermo, con una passione nata alla scuola d’arte della natia Cefalù a 11 anni, ha due mostre attualmente in svolgimento – al Circolo Fantoni (con finissage sabato) e alla libreria Contrappunto –, per una carriera apprezzata, ma che avrebbe meritato molto di più. Però, l’unicità di un incontro con un grande artista e una buona persona, alla Spezia da oltre un sessantennio, non può fermarsi lì in quelle stanze. Durante l’intervista ci chiede di seguirlo, per un centinaio di metri. Giungiamo al vicino asilo di via Di Monale: le sue pupille allora irraggiano energia quando ci descrive e spiega come i bimbi, che ci mostra in un pannello illustrativo, abbiano realizzato un prato fiorito con carta, plastica e avanzi di vita di ogni genere, seguendo i suoi consigli. Questo è Cosimo Cimino, ottantaseienne con il cuore sopra ogni cosa.
Ma come c’è finito alla Spezia?
"Da Paola, in Calabria, ho iniziato il mio percorso nell’insegnamento – esordisce –. Poi il trasferimento alla Spezia, seguendo la mia fidanzata Maria (poi divenuta l’adorata moglie, scomparsa pochi anni fa, ndr.) conosciuta proprio in quel mio primo passo da professore, visto che il padre, carabiniere, era stato assegnato al locale ospedale militare. Era il 1962, il primo incarico fu a Varese Ligure, l’ultimo alla media Pellico".
Nella scuola di piazza Verdi l’abbiamo conosciuta una quarantina di anni fa. Cosa ha trasmesso a tutti noi ragazzi?
"Innanzitutto le varie tecniche per esprimere la creatività personale. Tre studenti divenuti poi artisti che rammento? Alberto Sordi, Enrico Amici e Gloria Giuliano, di quest’ultima convinsi i genitori a iscriverla al liceo artistico che, a quei tempi, era solo a Carrara".
Che ambiente ha trovato nella nostra città?
"Molto stimolante, evoluto dal punto di vista espressivo, nel quale sono entrato in contatto prima con Gino Bellani e Francesco Vaccarone, poi con Carlo Giovannoni e Angelo Prini. Proprio in quel periodo fondai, insieme ad altri amici, il sindacato degli artisti. Un brutto episodio interruppe l’avventura: dopo aver creato la Galleria Passo Carraio con la Cgil, compresi che questa assonanza ‘politicizzata’ limitava l’accoglienza degli artisti schierati a destra, quindi proposi di scinderci dal legame a sinistra e uno dei membri, durante un diverbio, diede un calcio nello stinco a un collega. Un comportamento che ci turbò, uscimmo di lì in 12 e fondammo nel ‘68 la Galleria ‘Il Gabbiano’".
Quale esperienza ha vissuto al Gabbiano?
"È stata una grande fucina d’arte (chiusa nel 2018, ndr.), nella quale esponevo una volta ogni due anni e dove si invitavano gli artisti più stimolanti a livello internazionale, tra cui ricordo con piacere Edo Murtic e Sarenco. Organizzando una decina di mostre all’anno (560 in totale), abbiamo avuto dei contatti formidabili e a volte, presi dall’entusiasmo, ci comportavamo da irresponsabili, come quando trasportammo in macchina da Genova, blocchi di quadri, ognuno dei quali valeva ben 30 milioni di lire".
Nelle sue opere c’è una forte tensione tra ordine e disordine. Cosa rappresentano per lei?
"Le due espressioni si compenetrano".
Spesso usa materiali di recupero, residui del consumo. Che tipo di scelta è?
"Estetica, etica e simbolica".
Quanto conta il gesto manuale nella sua opera?
"La riflessione concettuale riveste un ruolo più importante. Il pensiero è al di sopra di ogni cosa: se è nobile, dà valore alle azioni".
Qual è il potere dell’ironia nell’arte?
"È quando manca che ci si deve preoccupare, io la cerco in tutti gli angoli del cervello. Siamo, purtroppo, ancora in un mondo di guerre, però gli aerei che amo rappresentare bombardano le città di parole, che diventano poesia, narrazione, capacità di dialogare".
Pensa che l’arte abbia ancora una funzione ‘irriverente’ e possa innovare?
"L’evoluzione nel campo tecnico e creativo ha permesso all’uomo di crescere. E così come quando un corpo umano si sviluppa non interessa un singolo arto, in un mondo più tecnologico, il progresso positivo può essere sfruttato da tutti, dal tecnico, dall’ingegnere e pure dall’artista".
Se dovesse racchiudere in una parola il filo conduttore della sua ricerca, quale sarebbe?
"Più che altro ‘confusione’. Perché non mi accontento di un risultato e cerco di superarlo, variando, senza approfondire. Sembra immaturità la mia, ma è un’esigenza che mi ha, probabilmente, privato delle grandi platee. Capogrossi ha fatto forchettoni per tutta la sua vita e i suoi lavori sono nei musei di tutto il mondo. Di Cosimo Cimino – conclude –, c’è un’opera al Camec, e... per grazia ricevuta".