
Marzia Corini
La Spezia, 30 luglio 2022 - Una condotta terapeutica unicamente finalizzata ad evitare - attraverso la sedazione palliativa - sofferenze terribili al fratello, malato terminale di cancro. Nulla a che vedere con l’eutanasia o men che meno con l’omicidio. E’ questo lo zoccolo duro dei ragionamenti che, il 5 maggio scorso, avevano indotto la Corte di Assise e di Appello ad assolvere Marzia Corini dal reato di omicidio volontario per la morte del fratello avvocato risalente al 25 settembre del 2015, facendo tabula rasa della sentenza di primo grado (che l’aveva condannata a 15 anni di reclusione) anche in relazione alle responsabilità, dedotte dalla corte spezzina, sul piano testamentario: nessun falso o manipolazione del legale dei vip per indurlo a compiere atti diversi da quelli desiderati.
Ecco perché è uscita a testa alta dal processo anche Giuliana Feliciani, avvocato ed ex collega di studio di Marco,che era tornata al suo fianco per espressa richiesta di lui: assolta dall’accuse di circonvenzione di incapace e di concorso in falso testamento.
Là dove in primo grado, nella ricostruzione dei fatti captata al telefono durante il dialogo di Marzia con l’amica Susanna Cacciatori, si era imposta la lettura confessoria dell’omicidio, i giudici di secondo grado arrivano alla conclusione che era stata sostenuta dall’avvocato Anna Francini sin dagli interrogatori resi da Marzia nella fase delle indagini preliminari davanti al pm Luca Monteverde, che non le credette.
«Si tratta di parole defluite senza controllo e senza logica, emerse nella profondità di pensieri aggrovigliati con il dolore, L’autodenuncia dell’imputata non trova alcun riscontro poichè le gravissime condizioni di Marco Corini non lasciavano alternative alla morte". Per spiegare l’approccio emotivo di Marzia, risoltosi in autogol in primo grado, i giudici spiegano: "La dottoressa d’altronde si addossava la colpa anche per i moribondi pazienti deceduti in ospedale, come ha riferito il dottor Malacarne. "Un senso di colpa riconducibile ad una forma di autolesionismo da cui Marzia era affetta, che colmava con l’estrema generosità nei confronti del prossimo".
Ne più ne meno le argomentazioni sviluppate, nel processo di secondo grado, dagli avvocati Vittorio Manes e Giacomo Frazzitta. Un successo professionale ma ancor prima umano il loro: hanno colto e trasmesso l’essenza di un animo irrequieto ma buono. Il successo è anche quello dell’avvocato Valentina Antonini, collega di studio e difensore fin dalla prima ora della Feliciani: si è battuta per scalzare, la testimonianza chiave di Isabò Barrak alla distanza rivelatasi di scarsa attendibilità.
"Un calvario processuale che poteva essere evitato se all’epoca fosse stata accolta la mia richiesta di giudizio immediato condizionato all’escussione dei testimoni Daniele e Rampini" dice ora l’avvocato Antonini.
Corrado Ricci