Emanuele
Baldi
Il fatto secco, la notizia nuda e cruda è che Antonio è fuori dalla Fiorentina. E solo scindere il suo nome dalla maglia viola, strappargli dal petto – seppur con parole al miele e di circostanza – il giglio arcaico delle maglie di lana grossa che furono, dalle parti del Campo di Marte è da considerarsi azione eretica. Premessa: non sta a noi entrare nel merito del balletto di compensi e competenze che hanno portato al divorzio tra l’Unico 10 e il club, ci limitiamo qui a disegnare i confini di un rimpianto al quale resta difficile sfuggire.
Il leit motiv delle bandiere
che si ammainano, del calcio che perde valori e radici in nome del pallone digitale francamente ci annoia. Preferiamo allora fotografare uno stato d’animo che a Firenze è giocoforza collettivo.
In uno sport che è diventato una tartare televisiva con i tempi dilaniati dalle emozioni sincopate del Var, in una solida ritualità domenicale sbiriciolata in mille sfumature di Instragram e bischerate varie, i simboli – e in questo caso il Nostro Simbolo – sono l’ultima ancora di salvataggio. Pensare al viso pulito, all’eloquio antico e gentile, al ciuffo demodé di Antognoni in mezzo a questo mondo squinternato e anonimo ci dava sicurezza. Era il laccio duro con il passato, la roccia della memoria, il cantico vivo di un calcio pane e biscotti.
Certo, nessuno cancella la storia, ma il fatto che Antognoni non sia più in casa viola, che qualcuno – come ha detto lui stesso – lo abbia cordialmente invitato a lasciare anzitempo l’ufficio ci dà il bruciore allo stomaco. Perché il calcio, in fondo, non è una moviola digitale e, in fondo, nemmeno ardore di vittoria. Ma carne, tensione emotiva, tessuto umano, comune sentire. Perché ci state togliendo tutto?
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