
Roberto Guadagnuolo. Aveva 63 anni
Firenze, 29 giugno 2025 – A furia di entrare e uscire dalla galera, il suo cognome, che in certi ambienti sfiorava il mito, si era perso una u. Roberto Guadagnuolo era infatti “il Guadagnolo“, una involontaria storpiatura che lo faceva sembrare un pittore del Rinascimento.
Ma sgomberiamo subito il campo dagli equivoci: Guadagnuolo con l’arte aveva poco a che fare, se non con quella dell’incendiarsi e del picchiare. Almeno una volta – per quanto è dato sapere scorrendo le cronache giudiziarie che ha riempito – andò vicino anche ad ammazzare. Della morte, comunque, non aveva mai avuto troppa paura, e ci era andato vicino diverse volte, anche dove in teoria avrebbe dovuto essere al sicuro, perché nelle mani dello Stato. Quella morte che ora l’ha colto a casa, in un giorno afoso di giugno. Roberto Guadagnuolo aveva 63 anni, e non più la forza, sovente furiosa e inarginabile, di un tempo. “Forse hai trovato la tua pace finalmente”, gli scrive Franco Prosperi, amico e compagno nella parte Verde in cui Guadagnuolo aveva giocato nel 1984.
Gli anni Ottanta, non solo il calcio in costume. Le notti fiorentini, locali, donne. Il personaggio Guadagnolo, senza la u, nacque qui e così, da Borgo Allegri al resto della città. Il rispetto delle regole fu però un esercizio arduo per lui. E tornò spesso quella u nel suo cognome nei verbali degli arresti che cominciò ad affastellare. Ma anche stringergli le manette ai polsi, non fu cosa da tutti.
Reazioni animalesche, resistenze da film. Le sue “imprese”, perfino in tribunale, rasentarono il sorpasso della crudeltà di certi suoi reati.
Nel 1995 sparò tre colpi di pistola semiautomatica contro un calciante dei Bianchi alla discoteca Central Park. Il bersaglio, mancato, fu Santo Tallarita. Che, oggi, si sfila dal coro di chi, sui social, ne tratteggia un ricordo quasi positivo: “Ricordiamoci di quelli che ha sacrificato, che ha picchiato senza un motivo, dei locali costretti a chiudere per le sue violenze gratuite”.
Quando il giudice, per quel tentato omicidio, lo condannò a otto anni, Guadagnuolo, per tutta risposta, alla lettura della sentenza dette in escandescenze mettendo sottosopra l’aula, imbiancando i carabinieri con la schiuma di un estintore e arrivando a indossare la toga del giudice, Francesco Maradei, prima di essere immobilizzato.
Per un po’, è stato all’Ambrogiana, il manicomio criminale. Ma non era il suo posto. Troppo normale per i folli e troppo folle tra i normali.
Ma nelle carceri “ordinarie“, tra provocazioni medicate con le ritorsioni, cominciò un’altra stagione della sua tribolata vita. Fece condannare alcuni agenti delle Sughere che lo avevano pestato. Ma con il tempo, anche il sistema penitenziario gliel’ha fatta pagare. “Come arrivai a Porto Azzurro mi vidi un esercito di secondini in assetto antisommossa - scriveva in una lettera -. Non so quel giorno quante botte presi. Mi aprirono la testa con pezzi di ferro, mi incrinarono una costola. Per un mese fui tenuto isolato e i primi 10 giorni tutte le mattine puntuali entravano e mi massacravano. Buttavo sangue da tutte le parti”.
Anni addietro, uscito di galera, si barricò un’altra volta in casa, a Coverciano. Riuscì a farlo desistere soltanto il comandante provinciali dei carabinieri. Da qualche anno viveva a Scandicci, a casa della madre. Ha smesso di rispondere a chi lo cercava al telefono. Sabato le forze dell’ordine sono entrate nell’appartamento. E stavolta, il Guadagnolo, non poteva più opporre resistenza. Mercoledì alle 9,30 i funerali alle cappelle del commiato di Careggi.