Cesare Prandelli, dalla gioia alla resa: la parabola di un amore

Il bis si chiude con l’amara consapevolezza della fine di un’era e di un mondo, quello del calcio, che ha perso il suo lato umano ...

Cesare Prandelli saluta durante il primo periodo  alla Fiorentina

Cesare Prandelli saluta durante il primo periodo alla Fiorentina

Firenze, 24 marzo 2021 - E adesso, adesso che questo padre sportivo è uscito di scena in punta di piedi con l’eleganza malinconica di una ballerina di fila, resta come un senso di vuoto. L’idea che si sia perso qualcosa di alto e nobile che apparteneva a questa città. Perché Cesare Prandelli verrà pure da Orzinuovi, Urs Nof come dicono in bresciano, terra ruvida di terremoti e pestilenze, ma oramai nell’anima era sanfredianino come la facciata brunelleschiana di Santo Spirito o i tramonti sull’Arno che si vedono dal ponte alla Carraia. Prandelli e Firenze, che strano rapporto da raccontare. Questa città, così diffidente, così rustica, così orgogliosamente autarchica, si era come spalancata a ventaglio per accogliere quest’uomo di calcio che più che allenare le squadre sembrava volesse educarle. Educarle al rispetto, al culto della fatica, al valore dell’integrità. Un uomo perbene in un mondo altro. Quasi un’anomalia.

Cesare Prandelli è stato per Firenze un portatore sano di felicità. Se Montella era ’l’aeroplanino’, lui era un cargo di gioia sportiva. Un uomo saggio, capace di ridere sulle cose leggere della vita (come quella di fare un cammeo di se stesso nel cinepanettone ’Vacanze di Natale a Cortina’) e di apprezzarne il lato fantasioso, soprattutto nello sport. Non guardate la sua Fiorentina asmatica di oggi, figlia di mille tossi da spogliatoio e di mille malanni da calcio mercato. Il suo football non era quello striminzito del 5-3-2, nel quale si era rifugiato come un naufrago sulla zattera della Medusa. No, il suo calcio era altro e finché ha potuto ha difeso la presenza in campo dei fantasisti matti da legare come fossero Panda da salvare dall’estinzione. Chiedere per conferma a Morfeo, a Mutu o a Cassano, che ha protetto con la visione del padre più che dell’allenatore.

«Il mio primo pensiero è quello di costruire un gruppo che assomigli a una famiglia», ha sempre detto a chi cercava i segreti del suo allenare che lo portarono fra il 2005 e il 2008 a vincere due panchine d’oro e un Oscar del calcio. Eppure, nonostante ciò, il legame vero con Firenze non si è cementato nei momenti di felicità, che pur sono stati tanti (con in testa a tutti la notte magica dell’Anfield Road, quando la Fiorentina fece a pezzi il Liverpool), ma in quel novembre del 2007 quando la moglie Manuela se ne andò per un tumore al fegato e tutta la città si strinse commossa attorno a Cesare, avvolgendolo senza volerne cambiare lineamenti e anima, come un Cristo velato che non è più solo statua. Già, il dolore. Noi non sappiamo cosa unisca le parti dell’atomo ma a legare gli uomini spesso è il dolore. E in quel dolore fragoroso e silente, si è stretto per sempre il rapporto fra Firenze e Cesare, lombardo d’Oltrarno.

Di quanto Prandelli amasse la città, lo raccontano bene le frasi e gli occhi nel giorno in cui la Fiorentina gli riaffidò le chiavi del convoglio viola: «Il cuore e l’istinto mi hanno detto di tornare qua, io non sarei mai andato via», disse allora mentre gli occhi scoppiettavano di gioia. Riguardateli oggi quegli stessi occhi, dopo il Milan ma anche a Benevento. Occhi spenti, smarriti, mondi di gioia. E poi le frasi: «Questo mondo di cui ho fatto parte per tutta la vita non fa più per me e non mi ci riconosco più».  Il senso plastico dell’abbandono e della sconfitta.

Cosa sia successo calcisticamente in questi mesi, lo raccontano bene le cronache sulle pagine sportive di questo giornale. Ma, umanamente, si ha l’impressione che Prandelli sia stato tradito. Tradito dalle sue aspettative. Tradito dal ricordo di un ambiente che non poteva essere più quello. Tradito da uno spogliatoio quasi venefico per chi teorizzava la voglia «di stropicciare con gli abbracci le persone a cui voglio bene». Così, quando si è accorto che la squadra tutto era tranne che modello famiglia, ha fatto ciò che fa chi ha una dignità: si è dimesso. Non una novità. Lo aveva già fatto con la Roma, quando alla carriera calcistica antepose la voglia di stare accanto alla moglie nei primi tempi della malattia, in una delle traduzioni più alte della parola «amore». Lo fece dopo lo tsunami in azzurro del Mondiale brasiliano, pagando anche le colpe di altri. Lo fa adesso, raccontando di un’ombra cresciuta dentro che gli ha cambiato il modo di vedere le case.

Buon ritorno a casa, dunque Cesare. Da oggi non sarai più l’allenatore della Fiorentina ma sei ancor di più un fiorentino a casa propria. E forse hai ragione tu: il mondo va più veloce di come noi lo pensiamo, soprattutto nel calcio. Senza più riconoscenza, senza più rispetto, con sempre meno orgoglio di appartenenza. Per questo verrebbe voglia di gridare: «Fermate tutto, fatemi scendere». E ho come il sospetto, ahimé, di non essere il solo fra i tifosi a volerlo urlare.

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