FRANCESCO
Cronaca

L’Installazione fra utopia e distopia

Francesco

Gurrieri

Un recentissimo scritto di Achille Bonito Oliva sull’idea e sul ruolo attuale della “Installazione” nella diaspora dell’arte che stiamo vivendo, induce a qualche riflessione a cui, una città come Firenze (che non vuol sottrarsi alla “contemporaneità”) non può non fare. La materia su cui riflettere riguarda il ruolo dell’arte e la permanenza dell’estetica, in una società da tempo definita “inestetica” (senza più estetica) o, nel migliore dei casi “sinestetica” (contaminata e plurisensoriale). Si tratta, in definitiva, di accettare se l’arte abbia ancora un suo spazio culturale nell’establishment (come insieme dei detentori del potere che vigilano sul mantenimento della vita sociale e culturale) o piuttosto prendere atto che si sia già assistito alla “fine dell’estetica” (come predicato da non pochi filosofi militanti); e se, infine, il tema della “Installazione” possa essere ancora "la forma più diffusa del contemporaneo, la sola sfida possibile lanciata dagli artisti al tempo precario della smaterializzazione". Riflessione non facile, che ci riconduce a qualche decennio indietro, quando Bonito Oliva propose la “Transavanguardia” (1979) e i suoi cinque moschettieri (Sandro Chia, Mimmo Paladino & C.). Già allora ebbe a dire che "nomadismo e transitorietà stavano alla base dei nuovi movimenti". Ma già allora l’Installazione (con l’Happening e la Performance) fu individuata come luogo sofisticato e di riflessione, con assemblaggi linguistici diversi di oggetti e di materiali e, talvolta, con la partecipazione attiva dello spettatore… E allora? Non sembra esserci novità, considerando poi che, nel frattempo (con Pignotti, Bodei e Givone, ad esempio) si è largamente dimostrata la destabilizzazione dell’estetica, che ha sicuramente perso il suo statuto, dimostrandosi inapplicabile al complesso rumore della contemporaneità. Prospettiva non condivisibile quella riproposta da Bonito Oliva: l’Installazione ha ormai finito di collocarsi fra l’utopia (come aspirazione ideale irrealizzabile) e la distopia (cioè anti-utopia, presagio di esperienze indesiderabili).