STEFANO CECCHI
Cronaca

Il palazzone di San Jacopino, dall'orrore all'indifferenza

La brutalità dell’omicidio delle valigie sembra non toccare la città. Come se il troppo male ci rendesse indifferenti al male. Il precedente degli omicidi di Ashley e Andrea: anche allora lo sgomento durò pochi giorni

I carabinieri escono dal palazzo nel quartiere San Jacopino

Firenze , 23 dicembre 2020 - L’orrore si è prodotto qui, in via Felice Fontana, nella quiete anonima di Firenze, dentro un palazzone di un quartiere popolar-borghese qual è San Jacopino. L’orrore si è trascinato poi dentro quelle due valigie di poveri corpi fatti a pezzi che Elona e chissà chi con lei, secondo gli inquirenti, hanno dopo appoggiato in una cantina come si fa con un vecchio paltò liso dal tempo, l’immondizia indifferenziata appoggiata da qualche parte e poi dimenticata. Più vengono alla luce i particolari di quello che potremmo chiamare il delitto delle valigie, e più l’orrore prende alla gola per una storia dove ogni parvenza di umanità sembra bandita.

Due genitori, Sheptim e Teuta Pasho, arrivati in pullman dall’Albania per riabbracciare il figlio che esce dal carcere, massacrati e fatti a pezzi per rubare loro qualche migliaio di euro. Oggi pietà l’è morta non vale più solo come canto della brigata alpina “Julia” sul fiume Vojussa, ma come nenia collettiva che fa da colonna sonora a questi anni macabri e distanti. Sì, distanti. Perché di fronte a tanto orrore si ha come l’impressione che si sia alzato un muro di disinteresse collettivo. Non con il fare di chi allontana da sé il calice amaro dell’abominio ma l’indifferenza di chi non si sente toccato da una tragedia maturata in un altrove indefinito. Certo, all’inizio non era così.

Nell’immediatezza del ritrovamento davanti a Sollicciano delle 4 valigie con dentro i corpi mozzati di due persone, i riflettori della cronaca si erano accesi nella suggestione di una nuova possibile saga dei delitti di un serial killer, o comunque qualcosa maturato dentro l’anima nera di Firenze. Appena si è capito che l’humus era lo squallore periferico di vite ultime arrivate da lontano, i riflettori si sono spenti. Come se il solo orrore non bastasse più a indignarci ma servisse altro, la suggestione, appunto, lo stupore, un nuovo limite. Ci si può restare male, ma forse non c’è da stupirsene. Perché oramai gran parte della nostra vita pubblica è accompagnata dal senso dell’orrore. I social, le serie tv, i film e perfino i documentari, spesso non sono altro che un tessuto ricamato di atrocità. Racconti di delitti, di impudicizie, di torture, di brutture in una sorta di ebbrezza universale di raccapriccio. Questo disgustoso bicchiere della staffa accompagna spesso il dopo cena sui nostri divani. E non vi è orrore che, bevuto col caffè o col cognac, non si trasformi col tempo in abitudine e rassegnata indifferenza. Non lo dico io ma Anna Maria Ortese.

L’omicidio, che ci è sempre stato (l’imperiosità del comandamento “non uccidere” ci assicura che discendiamo da una lunghissima generazione di assassini) ma che non è più sufficiente allo sdegno. Come se una mano invisibile avesse alzato l’asticella della nostra sensibilità e servisse sempre qualcosa di più per farci voltare.

Chissà come ci saremmo comportati se nella stagione del Mostro di Firenze ci fossero stati i social media e lo spirito di questo tempo. Avremmo conservato questo dolore infinito per quelle povere vittime innocenti che la mia generazione si porta dentro o lo avremmo fatto evaporare in un oceano di battibecchi sul web senza rispetto per nessuno? Avremmo continuato a seguire con angoscia il rosario macabro degli omicidi o al quarto ci saremmo stufati per la ripetitività e la conseguente indigestione di parole che avremmo prodotto in tv e su internet? In fondo, anche gli ultimi delitti atroci di Firenze, quello di Ashley o la mattanza di Riccardo Viti nel maggio del 2016 con Andrea Cristina Zamfir seviziata e crocifissa in un prato di Ugnano, ci riportano a ciò. Se troppo praticato, all’orrore ci si assuefà. E oggi chissà se un Munch o un Picasso troverebbero mai le forza dello sdegno per dipingere l’Urlo o Guernica.

Sì, questa assuefazione al male ci sta rendendo come indifferenti al male. E l’indifferenza è preoccupante quanto la violenza stessa. Perché è proprio l’apatia morale di chi si volta dall’altra parte che poi genera mostri. Resistere e ancorarsi all’umanità per non soccombere è il nuovo dovere morale del tempo.