ELENA BURIGANA
Cronaca

Caos, attese, bivacchi. Al pronto soccorso tra barelle in corridoio e visite impossibili

A Santa Maria Nuova con una forte emicrania: attesa di oltre un’ora. Senzatetto sul loggiato e spaesamento. Poi la chiamata della guardia medica: “Vada a casa, beva e se domani non sta meglio nel caso ripassa”

Un pronto soccorso (Foto New Press Photo)

Un pronto soccorso (Foto New Press Photo)

Firenze, 20 agosto 2025 – Ore 21: varco il pronto soccorso di Santa Maria Nuova con una forte emicrania che mi tormenta da giorni e problemi di vista. L’emicrania c’è davvero ma è anche l’occasione giusta per quel servizio sul campo alla porta d’accesso della sanità. Un mondo che si può raccontare solo ’vivendolo’ da malato. All’ingresso, vicino a una scrivania con la scritta ’accoglienza amministrativa’, quattro o cinque persone in piedi, immobili, aspettano in silenzio. Nella sala d’attesa accanto, una decina di persone: la metà dorme, chi rannicchiato su una sedia, chi appoggiato a uno zaino o a una borsa come fosse un cuscino improvvisato. Più che un pronto soccorso, un bivacco. I senzatetto che hanno fatto del loggiato che abbraccia il piazzale dell’ospedale il loro rifugio per la notte fanno avanti e indietro dal bagno.

Mi guardo intorno e sopra la mia testa due cartelli su cui leggo “triage“. Puntano in direzioni opposte, ma entrambe non portano da nessuna parte. Spaesata mi avvicino a una signora sulla cinquantina e le chiedo cosa fare. Mi indica un uomo dietro la scrivania. “Si sente male?”, mi chiede lui. Gli spiego i sintomi, anche se è chiaro che non è né un medico né un infermiere: indossa una divisa che ricorda quella della polizia municipale. “Faccia così, suoni il campanello dietro di lei e vedrà che qualcuno arriva”, mi dice, indicandomi prima una colonnina con un pulsante e poi il portone alla sua sinistra con la dicitura “pronto soccorso“. Sono le 21.15, suono il pulsante. Zero risposte. Suono di nuovo. Ancora nulla. L’uomo dell’accoglienza mi osserva con un misto di pazienza e rassegnazione. Poi prende un foglietto con un numero di telefono e me lo porge: “Intanto che riprova, chiami la guardia medica. Così almeno le trovano un dottore che la visita. Dentro sono oberati. Si sa quando si entra, ma non quando si esce. Io però non mando via nessuno”. Questa frase – “Io però non mando via nessuno” – la ripete almeno tre volte. Ogni volta più forte, più polemico, come se volesse farsi sentire da tutti. La donna a cui avevo chiesto aiuto in precedenza mi sorride comprensiva. Poi torna come gli altri a fissare il vuoto, aspettando e sbuffando. Compongo il numero e mi ritiro in un angolo, con il telefono incollato all’orecchio, aspettando che qualcuno risponda.

Sono passati circa venti minuti dal mio arrivo quando l’uomo dell’accoglienza si avvicina a passo svelto e mi sussurra: “Resti in linea, se no perde il posto”. Poi si allontana e sparisce oltre la porta principale. Non l’ho più visto tornare per tutta la serata. Nel frattempo, il silenzio ovattato della sala si rompe. Comincia un lento e continuo via vai di barelle: pazienti più o meno gravi, trasportati in ospedale dalle ambulanze, passano uno dopo l’altro, spinti da operatori concentrati. Qualcuno esprime il suo dolore, qualcun altro è attaccato all’ossigeno. A quel punto, finalmente, le grandi porte del pronto soccorso si aprono. Per pochi secondi. Uno spiraglio sufficiente a vedere cosa c’è oltre.Dentro il caos è evidente. Le barelle occupano schierate il corridoio. Altri pazienti aspettano in piedi lungo le pareti. Medici e infermieri si muovono a passo veloce. Nessuno si ferma. C’è chi dalla stanza dei triage ne approfitta per sgattaiolare dentro e chiedere informazioni. Poi le porte si richiudono e fuori torna il silenzio.

Sono le 21.30 quando riesco a mettermi in contatto con la guardia medica. Una voce femminile molto cortese mi chiede nome, cognome, codice fiscale e sintomi. Mi dice di aspettare lì dove sono. Appena un medico sarà libero qualcuno mi chiamerà e verrò visitata. Entrano due giovani turisti spagnoli con grandi zaini alle spalle. Non sanno che fare. “Necesito atenciòn médica”, dice uno dei due. Non c’è personale a cui chiedere. L’ingresso dell’ospedale è come se fosse diventato terra di nessuno.

Ore 21.50: il mio telefono squilla. È un numero fisso che non conosco. Rispondo. È il medico della guardia medica. Mi chiede di ripetergli i sintomi. Li spiego, per l’ennesima volta. “Io le consiglio di prendere una pastiglia di paracetamolo e di bere molta acqua. Se non ci vede bene sarà sicuramente disidratazione”, afferma. Al che decido di insistere. Spiego che non ho fretta e posso aspettare. Aggiungo: “Sa, sono davvero preoccupata. Il dolore non mi passa da tre giorni”. Ma la risposta non cambia. Per quanto gentilmente, il medico mi fa capire che non ha nessuna intenzione di visitarmi: “Stia tranquilla. Vada a casa, beva e se domani non sta meglio può ripassare”.

Sono le 22.20: vengo liquidata così, senza che nessun operatore sanitario mi abbia vista in faccia.